
Daniele Mazzetti
Arezzo, 7 giugno 2021 - Ora che è rinchiuso dentro una cella di Sane Benedetto, chissà se Daniele Mazzetti, il «dominus» del sistema Agorà, secondo la procura e il Gip, pur avendo dentro aveva ben poche cariche formali, avrà il tempo di ripensare ai due casi giudiziari in cui era già stato coinvolto e nei quali era sempre riuscito a filtrare fra le maglie della giustizia col minimo dei danni. Senza, cioè, farsi un giorno di carcere, nonostante almeno una condanna pesante, e solo con qualche settimana di arresti domiciliari.
Ma proviamo a ripercorrere. Il primo inghippo nel quale incappa Mazzetti, è alla metà degli anni Duemila la madre di tutte le tangenti che siano mai state pagate ad Arezzo: 400 mila euro per addomesticare la gara del calore della Usl, un affare da decine di milioni per riscaldare ospedali e uffici dell’azienda sanitaria, allora solo aretina.
Il capo di Agorà non era nè il corrotto (un funzionario della stessa Usl, che cambiò le scatole dell’offerta) nè il corruttore (un gruppo di imprenditori del nord decisi a vincere a tutti i costi, leciti e illeciti) bensì, secondo una sentenza ormai definitiva, quello che aveva messo in contatto gli uni e gli altri, condannato perciò anche lui per corruzione a quattro anni e quattro mesi, nonostante l’appassionata difesa che in un’udienza memorabile gli dedicò il sindaco-avvocato, Giuseppe Fanfani, i cui giochi di prestigio verbali furono tali da far quasi svanire la famosa scatola dello scambio e delle mazzette.
Non bastò però a convincere il tribunale, che aumentò addirittura le pene richieste dal Pm Elisabetta Iannelli. Da notare che tutto sarebbe rimasto coperto dalla nebbia se non fosse stato per un clamoroso incidente di percorso. Il faccendiere regista della tangente incappò nell’incendio doloso del ristorante di cui voleva riscuotere il premio dell’assicurazione. E visto che c’era si pentì, confessando sia l’uno che l’altro reato.
Mazzetti avrebbe dovuto finire in carcere già allora, ma gli avvocati riuscirono a ottenergli l’affido in prova ai servizi sociali: condanna scontata senza neppure un giorno in cella. Da allora il brasseur d’affaires, che in molti descrivono come uno alieno dai vizi della ricchezza (mai avuta) e con un solo hobby nella sua casa dispersa sopra Castelfocognano, quello dei funghi, è sempre rimasto cliente dello studio Fanfani, che gli salvò le penne anche nel secondo caso giudiziario. E chissà se vale il vecchio proverbio della gatta che ci lascia lo zampino.
Lo pescò infatti la procura di Pescara nel bel mezzo di una specie di complessa tangentopoli abruzzese, insieme a sindaci, politici, potenti del luogo. Stavolta il Gip dispose per lui gli arresti domiciliari, con i carabinieri ad arrampicarsi, nell’aprile 2011 fino a Castelfocognano per notificargli l’atto. E se qualcuno pensa che Mazzetti abbia pagato pegno, si sbaglia di grosso.
A trarlo di impaccio Luca Fanfani, il figlio di Beppe che era diventato l’avvocato di punta dello studio, col padre sempre più impegnato fra la politica e poi il posto al Csm. Fu lui, quando si arrivò al processo, a sollevare una questione di indeterminatezza del capo di imputazione. Eccezione che valse a bloccare le udienze per due anni, fino a quando l’intera impalcatura d’accusa non cadde in prescrizione.
Come a dire che Mazzetti si era finora rivelato una specie di Mago Houdinì, sempre capace di liberarsi delle corde della giustizia senza pagare pegno. Poi è arrivata l’inchiesta per frode fiscale e peggio associazione a delinquere che rischia adesso di costargli carissima. A meno che non ci sia in vista per lui un altro trucco per svicolare dalle giustizia. Non ci sarebbe da sorprendersi.