
Massimo Bianchini
Arezzo, 7 maggio 2018 - La sua specialità era il «Santa Mama», un brano tutto ritmo, scritto come tanti altri dal Monci, e che sul suo tamburo diventava un modo per sciogliere i polsi e le braccia. Lo aveva imparato da ragazzo, lo insegnava ai giovani che entravano nel gruppo sbandieratori: e che in tre minuti capivano perché un’intera città lo avesse ribattezzato il «nonno». Lui, Massimo Bianchini, scomparso ieri notte.
Timido a dispetto del fisico, innamorato di quell’esperienza ai suoi 72 anni come lo era stato quando si era affacciato per la prima volta dietro quella nuvola di bandiere. Aveva lasciato il gruppo solo per l’avanzare della malattia, quella che ieri ne ha spento il sorriso: malattia che si era manifestata in una delle mille trasferte per il mondo, impedendogli di scatenare il suo tamburo. «Era il nostro simbolo, una persona di straordinaria bontà e generosità» racconta emozionato Pasquale Livi: il «suo» direttore, gli ultimi anni della sua vita li aveva spesi anche a raccontare quanto il leader fosse stato determinante nell’escalation del gruppo.
E’ morto in nottata, da qualche anno viveva alla Casa Pia e lì l’Arezzo gli aveva portato una maglietta tutta dedicata a lui, con il numero 10 sulle spalle. L’Arezzo, la sua seconda passione. «Era con noi ai mondiali del 1978 – racconta ancora Livi – e all’aeroporto aspettavamo sbarcasse l’Italia. Quando da lontano ha visto il suo amico Ciccio Graziani era come estasiato, lo chiamava con tutte le sue forze». Che erano tante.
Instancabile primo tamburino, in oltre 40 anni di carriera non aveva perso un allenamento. Forse anche per la prudenza con la quale era entrato nel gruppo. «Veniva in palestra, ci seguiva: una volta si staccò il piombo dall’asta di una bandiera e lo colpì al labbro». Un segno del destino. Perché lui trovò la forza di farsi avanti e il gruppo un po’ anche di sdebitarsi di quella cicatrice, per coprire la quale si era fatto crescere i baffi. Era stato dipendente della Gori e Zucchi, quando ancora la fabbrica era in via Vittorio Veneto, quindi a modo suo pioniere sia del settore delle fortune aretine, l’oro, che di quel mondo della giostra che ne racchiude mille passioni. E a lui sono legati anche gli sbandieratori attuali, quelli del gruppo rinnovato nel tempo.
«Perdiamo – scrive l’associazione – un pezzo della nostra storia e della nostra memoria. Mancherà a tutti noi, alla città, al mondo della Giostra: siamo certi che Massimo resterà nel cuore di tutti». Certo di quei ragazzi che via via si erano fatti avanti, prima quasi intimoriti davanti alla sua stazza e al suo aspetto in apparenza burbero: poi innamorati del suo entusiasmo. Quello dell’uomo fatto ma anche quello del ragazzo che era rimasto dentro di lui. Legatissimo alla sorella e ai nipoti.
Fedele al suo gruppo, fedele alla sua avventura, fedele agli amici di una vita. Che oggi alle 15 gli diranno addio in Cattedrale. Si era fatto fare prima ancora della malattia un costume da sbandieratore, glielo aveva realizzato Mara Borgogni, la sarta del gruppo. E da quello oggii sarà rivestito. Pronto, prontissimo come sempre: perfino alla sua ultima trasferta.
Alberto Pierini