Statisti e non politici

L'editoriale del direttore de La Nazione

Pier Francesco De Robertis, direttore della "Nazione"

Pier Francesco De Robertis, direttore della "Nazione"

Firenze, 30 agosto 2015 - C’è la storia e c’è la politica, e i leader si dividono in statisti o in politici dalla capacità di comprendere se il momento in cui stanno operando appartiene all’una o all’altra. Come sta accadendo in questo preciso momento quando parliamo di immigrazione.

Perché la possiamo anche raccontare in un altro modo ma la realtà ci dice che siamo di fronte a uno dei più massicci spostamenti di persone della storia dell’umanità, che durerà anni e che modificherà nel profondo il tessuto sociale ed economico dell’Europa, con cinque o sei milioni di migranti - stima arrotondata per difetto - che per terra, per mare o chissà come si presenteranno ai nostri confini. E siccome al confronto dell’immensità della Storia le chiacchiere dei politici stanno a zero, è del cuore, della visione e della forza degli statisti che abbiamo bisogno per fronteggiare il passaggio più importante che l’Europa sta affrontando dopo la seconda guerra mondiale.

Allora avemmo la fortuna di poter contare su gente come Churchill, Roosevelt, De Gaulle, De Gasperi, adesso il convento ci passa quel che ci passa e con gli italiani che a dire il vero, con tutti i loro difetti di fronte agli egoisti conigli ungheresi, francesi, inglesi non sono neppure tra i peggiori.

Ma è sempre da lì, dalla Storia, che occorre passare. Ed infatti è la piena consapevolezza del momento storico che stiamo attraversando la prima cosa da chiedere ai nostri politici, proprio quella che nessuno o quasi nessuno finora ha manifestato. Per cui si va da chi specula sul consenso del momento (“mandiamoli a casa”) sparando a casaccio senza illustrare soluzioni praticabili (Salvini), ad altri che vorrebbero aprire sic et simpliciter le frontiere (la sinistra radical chic dei buoni sentimenti) facendo finta che tutto vada bene madama la marchesa (“sono tanti quanti gli scorsi anni ne mandiamo un gruppetto in ogni comune”) e se cento africani senza biglietto assaltano un controllore in fondo è colpa del controllore, altri che scambiano i buoni sentimenti con un programma politico (i vescovi, e chi li asseconda senza mediazioni critiche) dimenticando che con la misericordia si governano i cuori ma non la Storia, altri infine che affrontano le svolte epocali dell’umanità costruendo muri o stendendo filo spinato (Francia, Gran Bretagna, Ungheria).

Tutti discorsi, o logiche, di piccolo o piccolissimo cabotaggio, che ricordano la cavalleria polacca contro i carri armati di Hitler. Si sa come finì. I morti sul tir austriaco sembrano adesso aver scosso l’Europa, quasi che quanto accaduto finora nel Mediterraneo fosse passato inutilmente e soprattutto pare esser accettata l’idea che il problema vada affrontato, e vada affrontato insieme, in Italia e soprattutto in Europa. Con la logica e con la forza con cui si affrontarono sfide altrettanto epocali.

Lo ha detto Angela Merkel, adesso è arrivata anche la raccomandata con ricevuta di ritorno di Obama. Perché non ci si può voltare dall’altra parte. Non tanto per i buoni sentimenti che tutti proviamo, ma per necessità. La differenza tra politica e Storia è che di politica si può anche non occuparsi, la Storia invece ci insegue e chiama tutti alle proprie responsabilità.

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