Più di tre mesi senza vedere i suoi figli per curare i malati di Covid

Chiara Sbrana è un’infermiera che lavora in un ospedale di Milano. I bambini di 7 e 5 anni sono rimasti a Viareggio dai nonni

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Ci sono due cose che Chiara difficilmente dimenticherà. "I primi giorni. Arrivavano pazienti in continuazione, uno dopo l’altro. C’era questo suono ossessivo delle sirene delle ambulanze, non riuscivi a capire fino in fondo cosa stesse accadendo, ti sentivi solo impotente". E poi la prova emotivamente più dura. "Vedere morire i pazienti senza nessun parente accanto. C’eravamo noi infermieri accanto ma non è la stessa cosa. No, non può esserlo".

Dal 2012 Chiara Sbrana si è trasferita da Viareggio a Milano per lavorare come infermiera all’I.R.C.C.S. Multimedica di Sesto San Giovanni. A inizio marzo la terapia intensiva a cui è assegnata è stata convertita in reparto Covid. In quei giorni, nell’epicentro nazionale della pandemia, è iniziata la sua esperienza a stretto contatto con i pazienti più colpiti dal Covid–19, quelli che arrivavano già intubati, con quadri clinici compromessi. "Non mi sarei mai immaginata di vivere una situazione del genere – racconta – questi mesi me li porterò dentro per sempre. Come ho resistito? Grazie alla solidarietà tra colleghi e sentendo l’affetto delle persone care".

C’è un prima e un dopo nella storia di Chiara e di tutti gli operatori sanitari impegnati contro il Covid. E non c’entrano solo i turni infiniti o i segni sul volto causati dalle mascherine. Molto è cambiato, in ospedale e nella vita privata. "I pazienti arrivavano da tutta la Lombardia. Normalmente la nostra terapia intensiva conta 10 posti letto, siamo riusciti ad allestire in breve tempo 20 postazioni. Praticamente un nuovo reparto. L’età media dei ricoverati in terapia intensiva? 50–60 anni, ma ne sono arrivati anche più giovani, sotto i 40 anni".

Sono stati giorni di silenzio, di vuoto, di paura. Un po’ come attraversare un deserto e non sapere quando finisce e cosa attendersi oltre la linea incerta dell’orizzonte. "Purtroppo anche da noi ci sono stati dei deceduti. Molti però ce l’hanno fatta: il risveglio dal coma è una situazione delicata da gestire, il paziente non capisce dove si trova, cosa gli sia successo. Noi provavamo a tranquillizzarli. Sorridevamo con gli occhi attraverso le nostre mascherine, era il massimo che si potesse fare".

Chiara ha due figli, di 7 e 5 anni. Non li ha potuti vedere per quasi tre mesi. "Eravamo tornati a Viareggio per gli ultimi giorni di Carnevale, in Lombardia c’erano già stati i primi casi e assieme a mio marito (anche lui di Viareggio) abbiamo deciso di lasciarli dai nonni. Poi c’è stato il Lockdown e abbiamo potuto riabbracciarli a metà maggio".

La situazione attuale è migliorata. Resta la paura per una possibile seconda ondata e la delusione per come è stata trattata la sua categoria. Sembra già lontana infatti la retorica degli infermieri eroi, scalzata dalle scarse tutele sul lavoro e dalle manifestazioni di protesta delle ultime settimane. "Passata l’onda emotiva, siamo tornati quelli di prima. Quelli a cui non rinnovano il contratto nazionale da 14 anni, quelli con gli stipendi più bassi d’Europa, quelli che svolgono il proprio dovere quando nessuno se ne accorge. Serve un altro picco di pandemia per ottenere la giusta considerazione?".

Michele Nardini