
di Beppe Nelli
In principio furono coltellacci e muscoli ripieni. Le cozze le facevano e le fanno anche alla Spezia, ma la maniera viareggina era ed è insuperabile. Lo è ancora? In questi tempi di barbarie televisiva, col piccolo schermo che non trasmette sapori e odori e quindi premia solo le architetture minimal-barocche di piatti montati come insalate, non solo in città e in Versilia ma in tutta Italia c’è il rischio che vada smarrita un’intera cultura gastronomica, costruita dalla fame di una generazione dopo l’altra. Ogni volta che muore una nonna, quando un vecchio cuoco va in pensione, si perde un’enciclopedia dei fornelli. I nuovi cuochi guardano i ristoranti stellati, le trasmissioni come "Masterchef", ed è vano sperare che una sigla mezza inglese e mezza francese tramandi la tradizione. I cuochi creativi spesso non sanno realizzare un ragù o una trabaccolara. La Versilia conta circa 800 pubblici esercizi che in vario modo fanno somministrazione. Dopo il Covid è ripreso l’assalto ai ristoranti. E Viareggio e dintorni sono per questo una delle poche zone turistiche vantano 52 weekend di alta stagione all’anno.
La ristorazione è una risorsa turistica forte quanto il balneare, ma funziona in ogni stagione. I Comuni però non la promuovono granché. Certo, ci sono sagre a Massarosa e appuntamenti al Palazzo Mediceo di Seravezza. Ma a Viareggio, in passato, sono stati tentati eventi in nome del cacciucco. Puntavano sulla sfida con Livorno, il che etimologicamente ha poco senso. Di fatto, l’attrazione della ristorazione e dei prodotti tipici è lasciata al buon cuore dell’imprenditoria privata. Se si va avanti con i Roner a bassa temperatura, le cotture sotto vuoto nei sacchetti di plastica ("preservativi", citazione dal film "Il sapore del successo"), c’è un rischio: l’omologazione. E allora perché venire a cena a Viareggio o a Camaiore o al Forte, se poi in fondo in fondo si mangiano le stesse cose servite a Firenze, Rimini e Milano? La questione del gastroturismo è vitale per l’economia, ma importa poco ai Governi e pure ai Comuni.
Oggi un branzino e un’orata d’allevamento sono alla portata di tutte le tasche, se non tutti i palati. Ma tramandare la tradizione gastronomica vale quanto conservare i dipinti di Lorenzo Viani. E poi il cibo per la mente viene dopo quello per il corpo: primum vivere, deinde philosofari. Ne sapevano qualcosa le vecchie generazioni che stentavano a mettere insieme il pranzo con la cena. C’erano le cozze del molo, c’erano i coltellacci nella sabbia, ma non riempivano le pance delle famiglie e si aggiungevano pomodori, pasta, mortadella, profumi dell’orto. Da quella fame nacque la cucina che non è un’arte come pensano cucinieri e recensori d’accatto, ma tecnica con cui rendere appetibile e digeribile quello che per sua natura non è. Come il quarto quinto, cioè le frattaglie dei bovini e ovini. Qualcuno fa ancora il picchiante con cuore e polmone? Forse "Merendino" a Capezzano. I coltellacci presi col fil di ferro dopo la mareggiata sono spariti, ora s’importano. Le cozze ripiene richiedono tempo oltre che sapienza e il giusto equilibrio di macinato e mortadella. La pasta con gli scampi è una modernità, i viareggini navigavano ma pescavano da riva con la sciabica. I pescherecci e la cucina trabaccolara sono arrivati coi sanbenedettesi a fine ’800, e oggi la maggior parte degli armatori sono di origine siciliana. Ma prolungano un’antica tradizione.
Ci volevano ore e fatica per il cacciucco alla viareggina del mitico Bombetta, alias Fabio Canova in via Garibaldi. Quando il colera di Napoli fece sparire le comande di spaghetti allo scoglio, la ristorazione anni ’70 era senza alternative. Angelo Diridoni a Torre del Lago s’inventò le bavette con le triglie. E anche tra gli stellati, Franca Checchi di Romano che ora non è più in cucina, ha creato tanti piatti di evoluzione della tradizione, ma alla tradizione è rimasta sempre legata: nessuno ha mai più fatto i crostoni coi moscardini in umido come i suoi. Da tempo se n’è andato anche Giulio in Darsena, che era un maestro coi bianchetti, i rossetti, i paraculetti: roba di cui molti sotto i 50 anni non hanno mai sentito parlare.
Infatti: quanti hanno mangiato gli spaghetti col pottino? La ricetta perfetta ce l’ha Giuseppina Siniscalchi, moglie del compianto Niccola Palestini che è stato un leader dei pescatori darsenotti. Le auguriamo tanti anni ancora. Ma fra 100 anni ci sarà ancora chi sa cucinare quel piatto? A uso e consumo dei giovani "masterscef", pottino (o pipistrello) è il nome viareggino della torpedine, tanto brutta quanto gustosa e dimenticata.