Il senatore Giovan Battista Giorgini. Genero di Alessandro Manzoni

Fu un grande giurista e letterato con simpatie per il granducato di Toscana e i moti del 1848

Giurista, letterato e giornalista, con simpatie per il granducato di Toscana durante i moti del 1848, favorevole all’annessione al Piemonte un decennio dopo. Prima deputato e poi senatore, appartiene alla destra storica, è filo governativo, impegnato ad arginare l’opposizione che arriva dai banchi della sinistra. Giovan Battista Giorgini, genero di Alessandro Manzoni (ne sposa la figlia Vittoria), lucchese di nascita (1818) ma adottivo di Montignoso, dove passò la giovinezza.

Laureato in legge a Pisa, nel 1840 è già insegnante di diritto criminale a Siena e nel 1843 a Pisa. Qui conosce Vittoria Manzoni che sposa nel 1846. Poco dopo passa dagli studi di diritto, filosofia e letteratura, ad una attività politica in senso liberale, collaborando a diversi giornali: “L’Italia” (del quale è co-fondatore nel 1847); collabora con Giuseppe Montanelli al giornale patriottico con un programma che persegue l’unità nazionale aderendo ai principi di Vincenzo Gioberti; con il “Il Conciliatore” di Marco Minghetti. In rotta con la linea del triunvirato Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni, per via delle sue idee antirepubblicane, è destituito dal ruolo di insegnante (che riavrà con il ritorno dei Lorena).

Prende parte alle agitazioni che conducono alla anticipata unione del ducato di Lucca alla Toscana. Nel 1848 è capitano del battagliane universitario a Curtatone e Montanara, ma, ammalato, non partecipa ai fatti d’arme. Convertito all’idea unitaria, Giorgini è l’oratore della commissione che nel 1860 porta a Vittorio Emanuele il risultato del plebiscito toscano. E subito inizia la carriera politica con la destra: nel 1860 è eletto alla Camera nel collegio di Siena per la VII legislatura del Regno di Sardegna (677 voti su 719 votanti, tra i 1020 aventi diritto). E’ riconfermato nello stesso collegio nel 1861. Parlatore brillante, modello di eloquenza politica, incarna il liberale conservatore ed è definito “anima della potente consorteria toscana, la più abile e compatta tra i gruppi regionali che ricordano le antiche divisioni d’Italia”.

Per la IX legislatura è sconfitto nel collegio di Massa e Carrara da Andrea Del Medico (309 i voti ottenuti, contro i 382 dell’avversario carrarese) ma si prende la rivincita nel 1867 vincendo le elezioni per la X legislatura nello stesso collegio apuano e in quello di Pietrasanta. Nel collegio di Massa e Carrara si impone senza ballottaggio su Giuseppe Fabbricotti con 379 voti contro 276 (gli elettori sono 675 a fronte di 1074 aventi diritto); nel collegio versiliese vince il ballottaggio su Tito Menichetti con 399 voti contro 261. Dovendo scegliere, opta per il collegio di Massa e Carrara. Con lo scioglimento della Camera nel 1870, alle nuove elezioni è battuto da Giuseppe Fabbricotti per la XI legislatura (con 1274 aventi diritto, al primo turno Giorgini ottiene 250 contro i 404 di Fabbricotti, votanti 749; mentre al ballottaggio, con 940 votanti, ottiene 450 voti contro i 481 dell’avversario). Nel 1872 è nominato senatore. Si ritira dalla vita pubblica nel 1887 per darsi agli studi letterari.

Tra l’altro collabora con “La Nazione” e scrive l’introduzione al “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze” promosso da Alessandro Manzoni e da Emilio Broglio. E’ sempre attivo nei lavori parlamentari e si distingue per alcuni interventi. Nel marzo 1861 è il relatore dell’articolo unico con il quale si stabilisce che Vittorio Emanuele II assume “per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia”, chiedendo che “si levasse dalla Camera un grido d’entusiasmo convertito in legge, non mancando di toccare le corde del patriottismo”.

Nel febbraio 1862, con altri deputati presenta un ordine del giorno con la richiesta di un maggior rigore nella tutela dell’ordine pubblico. E’ membro della commissione della Camera incaricata di studiare le misure volte a sconfiggere il brigantaggio; vota a favore della reintroduzione della odiata tassa sul macinato (che passa con 182 volti a favore e 126 contrari) da lui definita” una tassa odiosa ma necessaria”; fa parte della commissione che studia il progetto per la soppressione delle corporazioni e congregazioni religiose i cui beni dovevano essere devoluti al demanio dello Stato.

E’ membro della commissione per la unificazione legislativa e amministrativa; ed è favorevole alla liquidazione dell’asse ecclesiastico. Dallo scranno del senato difende ancora la tassa sul macinato; nel 1877 è eletto membro della commissione sul codice penale; nel 1880 è il relatore per la riforma del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Nel 1887 si ritira dalla vita pubblica per dedicarsi agli studi letterari: collabora con Alfonso La Marmora a “Un po’ più di luce sugli eventi dell’anno 1866”; traduce testi dal latino, tedesco e danese. Trascura invece ogni contatto con gli ambienti politici locali e nel proprio collegio non esercita influenze degne di nota. Muore a Montignoso nel 1906.

Maurizio Munda