
Baratto tra sale e farina: "Scappavamo dai fascisti. Sparavano alle damigiane"
"Con dei grossi sacchi di sale partivamo alla volta dell’Emilia per scambiarli con la farina così da farci il pane e la pasta". Ora ha 96 anni Giuseppina Tornaboni, nel salotto di casa sua a Marina di Carrara ricorre alla memoria. Rispolvera quella parte di ricordi che molte volte ha provato a dimenticare, ma oggi sono necessari per ricostruire il tempo che fu "fatto di rastrellamenti, razzie del regime e fughe improvvise".
Nel 1944 la donna aveva 16 anni, abitava alla Partaccia dove la linea gotica divideva le difese dell’Asse sulla parte tirrenica e dall’altra parte le forze Alleate avanzavano in quella che era la Campagna d’Italia. Nella sua mente tutto è lucido come al tempo, la perfezione dei particolari colmi di attimi di paura condiscono il racconto di una guerra che sembrava infinita dove "dovevamo nasconderci e camminavamo scalze senza farci sentire perché se ci trovavano i fascisti ci portavano via tutto – racconta – Provengo da una famiglia povera con8 figli: cinque sorelle e tre fratelli, più mia mamma Annunziata Collazina e mio padre Giovanni Tornaboni. Addirittura non potevamo permetterci le scarpe perché quella era roba da ricchi, così indossavamo degli zoccoli e dei calzini di lana pesante". La Tornaboni allora 16enne con quegli zoccoli macinava chilometri, "insieme a mia sorella andavamo a prendere l’acqua al mare per poi metterla in grossi pentoloni, bollirla e ricavare il sale da barattare. Andavamo al mare con una carriola e sopra una grande damigiana, anche d’inverno, prendevamo l’acqua poi tornavamo a casa. Dopo una lunga e accurata lavorazione, stando attente a non bruciare il sale, facevamo dei sacchi. La paura era tanta perché se i fascisti entravano in casa ci avrebbero portato via tutto e se scoprivano che quel sale era oggetto di scambio rischiavamo la vita. Per questo se sentivamo bussare forte alla porta ci nascondevamo dietro la casa in una fossa scavata e ci coprivamo con rami di pino. Un giorno nel tragitto dalla spiaggia a casa con le damigiane, un fascista ci ha urlato contro e vedendole ha preso la pistola. Ha sparato verso di noi colpendo una damigiana e mandandola in frantumi. Siamo scappate senza guardarci indietro se avesse sbagliato mira penso che non lo avrei mai raccontato".
Quelle damigiane di acqua salata poi rovesciate nelle grosse pentole poste su un fuoco erano uno dei mezzi di sostentamento della famiglia. "Una volta che in fondo al pentolone rimaneva il sale lo rovesciamo dentro dei sacchi e dopo averli ben chiusi io e mia mamma li mettevamo in testa pronte per un lungo cammino fino in Emilia. Nell’entroterra il sale lo usavano per conservare e insaporire i salumi e noi lo scambiavamo con la farina prodotta da loro. Così in un tragitto che vedeva tappe a piedi e altre nei vagoni dei treni, ci nascondevamo insieme al bestiame e ci avvicinavamo sempre di più allo scambio a Parma. In quasi tutte le stazioni c’erano i fascisti, noi scalze cercavamo di conquistare metri, senza farci sentire: se ci avessero scoperto il nostro lavoro sarebbe andato in fumo. Qualche volta durante il cammino trovavamo qualcuno con un carro spinto a mano, ci posavamo sopra la merce e riposavamo testa e braccia. Durante i viaggi il problema erano i piedi, non avevamo le scarpe, quando trovavamo delle pozzanghere rischiavamo di bagnarci i calzini che specie in inverno non si sarebbero più asciugati facendoci congelare i piedi. Toglievamo zoccoli e calzini, camminavamo scalze nell’acqua per poi asciugarci in fretta, indossarli di nuovo e proseguire".
Patrik Pucciarelli