
di Carlo Marroni
C’è un filo lunghissimo e invisibile che lega Siena e una montagna dolomitica ben conosciuta dagli sciatori ma un po’ dimenticata dai libri di storia. I centenari della Grande Guerra sono passati, e dagli scaffali delle librerie via via sono scomparsi i bei testi su Caporetto e sul Piave, e ormai stazionano negli scaffali alti. Tra le tante c’è una storia, che è rimasta sempre un po’ sullo sfondo del racconto del fronte italiano: la Cengia Martini.
Uno sperone che prese il nome da Ettore Martini, ufficiale alpino che a Siena fu strettamente legato, e dove è sepolto, al Camposanto della Misericordia. Ma pochi lo sanno, nessuno (o quasi) lo ricorda. La guerra è il male assoluto, eppure come tante anche questa è una storia profonda, stordente, incredibile e tragica. Ma fatta di persone.
Non lontano da Cortina, su uno sperone alto passava la linea del fronte dei combattimenti tra l’impero austro-ungarico e il Regno d’Italia. Una linea tra il Sasso di Stria e il piccolo Lagazuoi, tagliando la zona del passo Falzarego. Qui i due eserciti furono davvero vicini, alla fine pochi metri, ma uno sopra l’altro, l’unico fronte verticale della guerra. E sul Lagazuoi si trova la Cengia: una sorta di cornice in piano orizzontale che sporge da una parete rocciosa, una specie di terrazza quasi pensile protesa sul fianco di una montagna rocciosa, che subito divenne la postazione italiana di gran lunga più strategica di quel quadrante. Due anni resistettero gli alpini in quel taglio di roccia appeso a oltre 2mila metri, mentre gli austriaci, erano arroccatI sulla sommità. Inoltre si rivelò essere una posizione privilegiata per colpire la postazione Vonbank austro-ungarica a difesa del passo di Valparola, perché consentiva agli italiani di colpire dall’alto le trincee del passo.
Il protagonista di quelle gesta uniche fu il maggiore Martini - marchigiano di nascita e senese di adozione - che in una notte dell’ottobre 1915 portò due plotoni su per lo spigolo roccioso e occupare il taglio della montagna. E la tennero fino alla disfatta di Caporetto che portò ad una ritirata generale da quel fronte. Su quelle pareti nacque un mondo di camminamenti, cucine, mensa, magazzino, telefono, stazione teleferica, posto di medicazione, fucina e falegnameria, che in parte si è salvato e da tempo è visitabile, anche grazie a un lavoro di recupero. Dalla vetta si vede l’immenso cratere formato dalla più grossa esplosione provocata dagli austriaci per cercare di neutralizzare gli alpini: 40 tonnellate di esplosivo furono scaricate sotto l’Anticima, ma le postazioni resistettero. Al maggiore Martini non sono intitolate piazze o strade (un monumento è stato inaugurato di recente a Castellina in Chianti, dove morì) e la sua tomba è in un angolo del cimitero della Misericordia, accanto alla lapide del figlio.
L’oblio forse è spiegabile dal fatto che fu un fascista attivo, anche se ricerche senesi hanno accertato che non fu né un antemarcia né squadrista o gerarca. Morì il 25 agosto 1940 e anche se avesse voluto non avrebbe fatto in tempo ad abiurare il regime e salvarsi dall’oblio. Era stato promosso generale di brigata, sulla lapide c’è inciso solo: ’Alpino dell’omonima cengia’.