I maestri, l’umiltà e il genio Così si disegna l’arte di ridere

Emilio Giannelli ha raccontato nelle sue vignette 60 anni di storia patria. L’Accademia degli Intronati gli ha assegnato il premio ’Montale fuori di casa’

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di Roberto Barzanti

Emilio Giannelli è rimasto sempre se stesso. Il successo non gli ha dato alla testa. Ha serbato l’humour garbato e frizzante degli anni belli del Liceo Piccolomini, lo spirito irriverente del goliardo scherzoso. Se gli chiedi un disegno non dice mai no. Dal 1991 una sua vignetta funge da fulminante editoriale del più diffuso quotidiano italiano. Quando la sera, verso le sei, riceve la telefonata dal Corriere delle sera e concorda il tema su cui improvvisare la scenetta di prima, ci pensa un po’. Poi comincia a scrivere: il suo tratto è davvero scrittura. Emilio riempie ordinatamente un foglio, da sinistra a destra con veloce mano di mancino geniale, poi con la destra ripassa tutto a penna, e con particolare cura le poche zone che ha lasciato indefinite.

Un impegno che potrebbe creare affanno per lui è un puntuale divertimento, un “secondo mestiere”, per dirla con Montale, che non gli impedisce di occuparsi di cause e pandette, né di partecipare a una vita comunitaria complicata. Il fatto è che Emilio ama Siena, pur vedendone con l’occhio critico che si ritrova, magagne e distrazioni, impacci e ambiguità, chiusure e equivoci. È una passione che ha preso dal babbo e ha condiviso con il fratello Ghigo, con la famiglia e la Contrada, il Drago. Emilio ama la chiarezza delle epigrammatiche e salaci battute. Della politica di questi anni è un osservatore tra i più acuti e disincantati. Non è vero che la satira fiorisce in una zona franca e non ha suoi obblighi di verità, da un linguaggio dotato di sue cifre e di suoi paradossi. Quand’è, come la sua, di buona marca risponde a una visione del mondo, a un’urgenza etica.

Se fosse solo un pretesto per una battutaccia spassosa, non sarebbe satira. Per essere pungente deve avere una nervatura morale. Se gli chiedi quali siano i suoi autori, Emilio fa subito i nomi di due marsigliesi: Honoré Daumier e Albert Dubout. Subito segue il mitico Benito Jacovitti, che da ragazzo ammirava incantato sul “Vittorioso”: quei paginoni in cui volavano salamini e rondini, affollati al punto che ci voleva un giorno per scorrerli tutti, e ogni volta che li riguardavi scoprivi un dettaglio che era sfuggito. Erano un mondo, il mondo dei nostri anni giovani, senza televisione e frastuoni. I primi disegni di Emilio, che allora si firmava EmGia – nomignolo che gorgogliava come una smorfia digestiva – si son visti spuntare nelle aule severe del Liceo Classico negli Anni ‘50, e stampati nei numeri unici di ogni tipo. Emilio è nato nel 1936: aveva 14 anni al suo esordio. La sua è stata, ed è, una vocazione, un’incontenibile mania alla quale non è consentito disubbidire. La radice è la parola e i significati ambigui che contiene.

Assomiglia in questo a un altro dei suoi autori diletti, a Mino Maccari, che, quando si trovava assediato da ammiratori che gli chiedevano un disegnino, nessuno riusciva a frenarlo. La moglie di Emilio, Laura, condivide con lui stile di vita e tenacia di affetti, lo guarda severa e indulgente proprio come faceva la sorella di Maccari quando lo vedeva dispensare frenetico i suoi impietosi schizzi. Il teatrino di Emilio è molto incentrato sulle grottesche vicende della grande politica e dei piccoli guai quotidiani. Anche quando fa scoccare frecce velenose riesce a far ridere. Un bonarietà popolare attutisce l’amarezza. Il suo segno non è espressionisticamente stravolto alla Grosz, la sua commedia echeggia la rassegnata, domestica elegia di Novello. "Il riso – ha scritto Bergson – è veramente una specie di castigo sociale". "Ridendo dei nostri mali – confessa Eleandro-Leopardi – trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, e l’unico rimedio che vi si trovi". Emilio mi rimprovererà per aver scomodato questi grandi, perché la sua discrezione si fregia di un ammiccante pudore. È il segreto della simpatia che regala ogni giorno, come in un amichevole diario, spunti di una satira che ha radici lontane. Nella beffarda classicità romana e nelle taverne senesi frequentate da Cecco.