
di Silvano Benedetti*
Il mattino del 7 settembre 1920 il territorio appenninico compreso tra la valle dell’Aulella, la Garfagnana, il Frignano e il versante apuano fu sconvolto da un terremoto che travolse la vita di migliaia di persone e la rete di rapporti sociali, affettivi ed economici che si erano consolidati nei secoli. Interi paesi furono cancellati, il fragile ambiente rurale travolto, migliaia di persone persero tutti i loro beni e dovettero emigrare.
Tutto iniziò con una forte scossa il 6 settembre, intorno alle 16, che procurò qualche danno alle case e molto spavento tra la popolazione che si convinse a passare la notte all’aperto per sicurezza. Fu la salvezza di centinaia, se non migliaia, di persone perchè il mattino seguente, alle 7.56, ’solo’ 171 persone (cifre ufficiali) rimasero sotto le macerie. Considerato che furono rasi al suolo paesi interi come Villa Collemandina e Capraia in Garfagnana, Vigneta e Montecurto in Lunigiana e centinaia di altri furono semidistrutti, quel contenuto numero di vittime può considerarsi quasi miracoloso.
La scossa ebbe una durata di 20 secondi e raggiunse l’intensità del X grado della scala Mercalli nei quattro paesi menzionati, 6.48 della scala Richter; per intenderci, nettamente superiore a quelle recenti dell’Aquila e di Amatrice! I borghi appenninici non ressero; i fabbricati in pietra, spesso di origine medievale, allineati lungo carugi stretti e tortuosi che seguivano le asperità del suolo, franarono gli uni sugli altri come castelli di carte. Nuvole di polvere si alzarono a coprire la distruzione improvvisa, cieca, delle due valli tranquille e laboriose.
Una delle comunità più colpite fu quella di Sassalbo, da dove è emerso un lungo racconto del parroco, don Antonio Pinelli, di cui riportiamo un frammento: "Era uno sgretolarsi generale, e calce e piccoli sassi cadevano dappertutto, all’agitarsi degli usci di cucina, di sala e la porta. Ad un tratto al mio fianco sinistro, precipita con fracasso orrendo l’arco e il muro sopra della scala e credo che si sprofondi già tutta la camera sovrastante a questa, di mia sorella. Data una furtiva occhiata a destra e a sinistra, fra il franar delle cose in sala, vedo il cielo in alto, e non vedo la sorella. Credendola uscita, chino profondamente la testa per non essere colpito al capo dai rottami e mi slancio perdutamente fuori. Mi trovo a circa due metri lontano, disteso sul selciato come supino; o almeno la faccia al cielo e il capo alla canonica".
Secondo le cifre ufficiali, Sassalbo pianse 15 vittime, Villa Collemandina 27 (in maggioranza bambini), Montecurto 4, Vigneta 13, Capraia 4, Fivizzano 16. La potenza sprigionata dal sisma era stata eccezionale: si aprirono spaccature nel terreno, ampie frane investirono centri abitati, nel Frignano si formò un laghetto, molte sorgenti variarono la loro portata.
L’allarme arrivò alla Spezia immediatamente dal telegrafo della stazione di Soliera, subito rilanciato dal Comando della Marina al Comando di Corpo d’Armata di Firenze. Poi un susseguirsi di telegrammi e telefonate tra comandi militari, prefetture e comuni e presto fu chiaro che i danni erano gravissimi e la popolazione aveva bisogno di aiuto immediato. Data la vicinanza della città della Spezia alla Lunigiana, già in mattinata la Marina organizzò la prima opera di soccorso con autocarri militari carichi di soldati, marinai, pompieri, sanitari e volontari della Pa. Da Firenze partì una colonna di autocarri diretta in Garfagnana. Nel pomeriggio furono organizzati treni speciali con materiali di soccorso, tende e viveri che raggiunsero Aulla e Lucca, scelte come centri di raccolta e smistamento, gestiti il primo dalla Marina per la Lunigiana e il secondo dall’Esercito per la Garfagnana. Gli stessi treni rientrarono alla Spezia e a Lucca carichi di feriti, la maggior parte dei quali con fratture e schiacciamento di arti e torace, che furono dapprima ricoverati negli ospedali militare e civili di Spezia, Lucca e Massa. Presto la tragedia apparve in tutta la sua crudezza.
Il giorno seguente il re e la regina, che si trovavano nella residenza reale di San Rossore, visitarono le aree colpite e rimasero molto scossi alla vista di quella devastazione e della disperazione di quanti avevano perso affetti e beni. La risposta dello Stato fu veloce nell’immediato grazie all’intervento delle forze armate e delle associazioni di volontariato. Gli interventi successivi furono invece segnati da difficoltà organizzative, in parte spiegabili con la difficoltà dei collegamenti verso le frazioni più isolate, ma di fatto il Paese non era preparato ad affrontare un’emergenza così grave ed estesa. Anche la ricostruzione fu lenta e sommaria, gran parte della popolazione visse all’addiaccio o in capanne di legno e paglia fino alla fine del mese e nelle tende fino a dicembre; la stagione autunnale, piovosa e fredda, riuscì a rendere quell’esperienza ancora più tragica con gli acquazzoni del 10 settembre e 50mila senzatetto ancora accampati. Le raccolte di fondi da parte di associazioni, Chiesa e giornali, alle quali aderirono anche gli italiani all’estero, partirono subito; parallelamente ai fondi stanziati dallo Stato, ma in maniera più flessibile e meno burocratica, esse consentirono di aiutare subito la popolazione con viveri e materiali di conforto come coperte, tende e medicinali, poi di realizzare baracche in legno entro la fine del 1920 e infine case economiche nell’arco di qualche anno. L’onorevole Tangorra descrisse la situazione in maniera lapidaria: “La Garfagnana oggi non è più, la Garfagnana fu!”.
* Ammiraglio, ex direttore del Museo Tecnico Navale della Spezia