
Vita morte e miracoli del tessile che ha animato la crescita di città e provincia. E’ questo l’appuntamento domenicale della nostra rubrica ‘Come eravamo’, dopo quelli con Edoardo Nesi, il Lungobisenzio, Filettole, la goliardia, le botteghe, Baghino, Silvio Pugi, Giovannini, La Nazione, Fiordelli. Fondamentale, in questo viaggio nel tempo, il contributo delle bellissime foto di Ranfagni.
di Roberto Baldi
Fummo popolo di santi poeti navigatori. A Prato soprattutto di tessitori. Tastavamo la flanella come si carezza una bella donna. Un telaio in ogni stanzone. Qualcuno di telai ne mandava due o tre insieme e col tempo tentava l’impresa. La Cassa di risparmio di Bambagioni & C. ci aiutava generosamente e la chiamavamo la "mamma". "I’ telaio gliè come i’ core", diceva Paolino da Vaiano detto Millecolpi (quelli del telaio) che se lo litigavano anche gli ingegneri delle ditte tedesche. Ci addormentavamo la sera felici e stanchi, augurandoci che all’indomani Iddio ce la mandasse buona e senza vento. Aumentava infatti il conto in banca, qualcuno metteva la barca a Punta Ala, ma senza vento impossibile anche per il Padreterno nella città più ventosa d’Italia dopo Trieste, con la tramontana che infila impietosa la gola del Bisenzio scende da Montepiano e rinfocola alla Tignamica. La fabbrica è una magia, mi diceva anche Arnolfo Biagioli, il prototipo dell’imprenditoria pratese, che anziano e arrendevole non fu mai, perché lo resuscitava la fabbrica dentro la quale era nato e vissuto, la casa al piano rialzato e a lavorare disotto. L’industria tessile conferiva la prevalente impronta alla città: le fabbriche in centro, la rifinizione del Cherubini di fronte al Castello dell’imperatore, la peluria dei garzi che si trasferiva alle lavorazioni con i camion presi a noleggio in piazza Ciardi (un riciclaggio ante litteram), il viavai dei mezzi di trasporto, le gore, il Bisenzio che offriva periodicamente lo spettacolo dei barbi boccheggianti e tumidi a pelo d’acqua, l’occhio velato dalla tristezza in ossequio a quella che chiamavamo turbativa del sistema, sopportata perché i tempi lo richiedevano. Mai detto di no a un ordine lavorativo. E non c’era fretta nei pagamenti, perché a pagare e morire siamo sempre in tempo si diceva. I soldi da dare? Mezzi subito e il resto a sei mesi, perché tra aegli e non aegli sono il doppio e chi paga avanti lo servon didietro.
Anni ’90: il motore tessile cominciava ad ansimare; tra il ‘91 e il ‘96 si registrava un -15% delle imprese. "Prato non guadagna, fiducia a picco" titolava il nostro giornale. Il vecchio tessile acciaccato, in crisi e pieno di ferite. La globalizzazione neo-liberista avviava una rivoluzione nel distretto; la domanda internazionale di tessuti virava su altri Paesi. Finiva anche la formula del piccolo è bello tradotta in unità flessibili, molto lavoro fuori della fabbrica, con l’artigiano a domicilio. Si era al miserere.
C’era ancora una letteratura che resisteva attraverso intestazioni di facciata. Anche i colori smaglianti del mantello di Giovanni Paolo II per l’apertura del Giubileo all’inizio degli anni 2000, esposto ancor oggi nel suggestivo allestimento del Museo del tessuto, facevano riferimento a Prato. Ma erano i titoli di coda di una storia fino agli anni ‘90 brillante, quando l’industriale passava sedici ore in fabbrica, il giorno di Ferragosto tornava dal mare in città per dare un’occhiata alla ditta e andava a fare il mescolo di mattina alle 6 come Stefano Cecchi della rifinizione Santo Stefano, che pagava più tasse di tutti e non licenziava mai nessuno. Chiudeva un sapere antico tramandato da generazioni. Poi negli ultimi anni un leggero vento di ripresa, allargando gli investimenti, modificandone la struttura organizzativa, inglobando la competizione cinese, nei primi tempi da Far West, oggi in faticosa regolamentazione col via vai di macchine di grossa cilindrata, sventagliata di ditte in rapida successione, cartelloni in doppia lingua per dire che siete benvenuti nel ‘made in Italy’ di Chinatown, la cucina rapida del ‘fashion’ cotto e mangiato, finché si è arrivati a registrare a Iolo, sette strade quasi duecento aziende, il commerciante israeliano dice che compra all´ingrosso in due posti al mondo: in Thailandia e qui.
Accanto a loro una graduale riscoperta della lavorazione tradizionale pratese, dell’innovazione e del riciclo che sta partorendo in questi giorni anche l’hub del tessile, una dizione anglofona, all’insegna del "Prato non deve morire" e che nel linguaggio ineffabile di Arnolfo Biagioli significava poeri e bischeri un s’ha da essere. E’ presto per dire che la tempesta è finita, ma per quanto lungo possa essere l’inverno, a Prato c’è sempre stata una primavera ad attenderlo. Come in questi giorni in cui il sole brilla sulla pioggia, si dissolve l’inverno, cresce l’uragano dei colori.