
E’ una delle prime infermiere di famiglia diventate operative in questa provincia ma per lei, Virginia Bisconti, 31 anni, laureata in scienze infermieristiche nel 2016, infermiera di famiglia dal 2019, parlare di lavoro è riduttivo. "Quando ci si fa carico della cura e della salute dei pazienti a casa loro - dice - si crea un rapporto di fiducia che guarda non solo alla malattia, ma alla persona nel suo complesso, sia sul fronte sociale che psicologico, inserito nel contesto domestico e familiare". Un approccio diverso rispetto a quanto succede nei reparti ospedalieri, dove la professionalità degli infermieri viene esercitata in un ambiente riconosciuto come strettamente sanitario. La figura dell’infermiere di famiglia si sta facendo largo anche a Prato, dove le prime esperienze sono partite appunto nel 2019. Uno dei cardini della professione infermieristica del futuro, come celebra quest’anno la Giornata internazionale dell’infermiere che cade il 12 maggio, la data di nascita di Florence Nightingale, fondatrice delle Scienze infermieristiche moderne. Si tratta di un progetto studiato in Asl e deliberato nel 2018 in Regione Toscana, come modello da assumere in tutto il territorio regionale. Una iniziativa che è stata la prima a livello italiano ad essere adottata.
Un’esperienza che Virginia Bisconti consiglia a tutti i colleghi, lei che dopo un paio di anni di lavoro nella rsa Santa Caterina, ha superto il concorso Estar, è stata assunta in Asl e subito è stata destinata a svolgere servizio sul territorio, dapprima al distretto nord ovest in via Giubilei e poi nel percorso dell’infermiere di famiglia. "E’ stato necessario un periodo di affiancamento durato un mese e mezzo perché questo lavoro richiede un approccio differente rispetto alla modalità di lavoro in ospedale o in una rsa", spiega. "Solo allora ho capito l’importanza di questa missione, perché il termine lavoro è riduttivo: quotidianamente si entra in contatto con la sofferenza e il dolore delle persone nel loro luogo più intimo, come può essere la casa. Entriamo sempre in punta di piedi nelle case delle persone".
Un operatore sanitario che dunque si allontana dall’immagine consueta dell’infermiere. E che segue l’evoluzione contemporanea della disciplina. "In passato la prestazione sanitaria era il fulcro della nostra attività. Adesso resta sempre prioritaria, ma la nostra azione si apre ad altre sfere, quella sociale e psicologica, sia del paziente che di coloro che gli stanno vicino, familiari, caregiver o badanti che siano. C’è un tipo di approccio olistico globale. Ci rapportiamo con le persone e non con i malati, creando un rapporto empatico che diventa parte attiva della presa in carico". Un cammino da compiere assieme al paziente e alla sua famiglia: "Durante questo percorso ci interfacciamo con il medico curante, con gli assistenti sociali, con le badanti. Diventiamo il punto di riferimento per le famiglie". Il tipo di pazienti seguiti è vario, perché si va dal neonato fino al centenario. Il servizio non si è mai interrotto, anche nel duro periodo della pandemia, sebbene qualcuno degli infermieri sia stato richiamato in ospedale. Fatto sta che la figura dell’infermiere di famiglia è protagonista dell’assistenza del futuro, nella prospettiva in cui in ospedale si trattano le fasi acute e sul territorio le convalescenze, le cronicità e anche i fine vita. "La maggiore soddisfazione è quando vedi un risultato concreto: come nel caso di un paziente tornato a camminare dopo mesi di cura, seguito dalla nostra ’cellula’ per la somministrazione di un farmaco particolare: da febbraio a maggio abbiamo visto la sua evoluzione. E oggi può andare assieme alla moglie a mangiare un gelato. Sentiamo un profondo senso di responsabilità e di gratificazione". Una missione in grado di dare vita a "rapporti speciali, anche quando purtroppo per il paziente non c’è niente da fare. Tutti coloro che seguiamo rimangono nel cuore".
Sara Bessi