
Giuseppe Nicodemo e la moglie Cinzia
Giuseppe e Cinzia ce l’hanno fatta. Sono marito e moglie. Lui 60 anni, lei 59, hanno combattuto con il virus e hanno vinto. Sono stati ricoverati per molti giorni e infine salvati dalle cure dei sanitari e dalle maschere iperventilanti. Lontani per 18 giorni, ognuno a combattere la propria battaglia, domenica sera si sono ritrovati a casa, fuori dall’incubo ma con un grande carico di dolore, visto che per colpa del Covid ognuno di loro ha perso un genitore: Giuseppe Nicodemo la madre, Cinzia Lafranceschina il padre. Questo è il racconto che li riguarda.
di Giuseppe Nicodemo
La mia vita scorreva normalmente fino al 15 marzo: il mio studio professionale, la mia famiglia, il mio golf e le mie attività sociali. Ma quel lunedì qualcosa non va, stanchezza eccessiva e brividi. Mi autoisolo e d’intesa con il medico faccio uso di Tachipirina per abbattere la febbre. Dal 16 al 22 marzo una serie di sventure colpiscono la mia famiglia. Muore mio suocero anche di Covid, ma con altre problematiche, vaccinato l’8 marzo con Pfizer. Nel preoccuparmi di una serie di focolai Covid di familiari, non curo tempestivamente l’evolversi della mia infezione Covid. Il 22 marzo viene ricoverata mia moglie con il padre morto da tre giorni. Il 23 marzo, quando la mia respirazione era fortemente compromessa, mio figlio mi ’obbliga’ ad andare in ospedale. Un’ambulanza della Misericordia viene a casa e la dottoressa rileva la gravità (saturazione di ossigeno a 80 quando il minimo è 93) e decide di andare subito al Santo Stefano. Arrivo al pronto soccorso Covid, ove mi mettono in una stanza con quattro altri malcapitati. Referto: polmonite bilaterale interstiziale. I miei polmoni erano stati invasi da liquidi per il Covid. Dopo 24 ore dal pronto soccorso diretto dal dottor Baldini, vengo trasferito al terzo settore Covid diretto dal dottor Di Natale. Il letto 45 sarà il mio luogo di riposo su quanto andrò a fare per combattere questo bastardo venuto da Whuan. Dal 24 marzo al 5 aprile ininterrottamente 22 ore al giorno, attaccato ad una maschera Niv iperventilante, che con il tempo diventa la mia preferita amica, perché ha contribuito fortemente a salvarmi la vita.
Tredici lunghe notti e giorni con la mia amata Niv, coricato prono sul letto, braccia sulle spalliere del letto per aiutare il drenaggio del liquido generato dal virus. Gli operatori del pronto soccorso e del terzo reparto Covid, letto 45, mi hanno nutrito, aiutato a tenere la maschera, redarguito quando mi distraevo offrendo spazio al virus. Grazie, grazie, grazie. Un percorso necessario per controllare gli effetti di questo combattimento e portarmi verso la guarigione completa. Io penso di avercela fatta definitivamente, ma accanto al mio letto 45 ho visto morire tre persone. Andrea, Gino e un secondo Andrea, tutti a seguire con una media di pochi giorni e dopo averci provato a vivere, sono stati finiti da questo bastardo virus. Ho sentito i loro lamenti, rantoli disumani e respiro affannosi, tanto che il mio dolore atroce sembrava nulla. Con Gino abbiamo ricevuto la Comunione il Venerdì Santo, mentre il vescovo era sul piazzale a condurre la Via Crucis e il giorno di Pasqua con uno dei due Andrea, che il lunedì dell’Angelo lascia la stanza per la rianimazione e non tornerà più. Che Dio vi accolga in cielo, sfortunati compagni di stanza in ospedale, per colpa di un virus bastardo venuto da Whuan. Sabato santo mi preannunciano che provvederanno a fare una prova con meno ossigeno esterno, per verificare l’evoluzione della ossigenoterapia.
Le amorevoli cure dei sanitari con la Niv e con i medicinali stanno allontanando il virus dai miei polmoni. Il giorno di Pasqua la decisione medica confermata: graduale distacco dalla Niv a scalare e l’8 aprile si va alle cure intermedie ex Misericordia e Dolce che io definisco resort, diretto dalla dottoressa Calvani, dove io incontro, nella stanza 10 nel mio letto 13, per 10 giorni fino al 18 aprile, Francesco (81 anni), Simone (52) e Marco (60). Tre persone che come me ce l’hanno fatta. Tre storie diverse con percorsi di ossigenoterapia diversa. Francesco assimilabile alla mia, ma lontano da casa da 76 giorni, anche la moglie colpita. Rientrerà nella sua casa ove i suoi lo aspettano, con mascherina e distanza. La richiesta ai medici: ’Posso abbracciare mia moglie?’. Simone, meno pesante la polmonite, forse perché aveva iniziato la cura a casa e rientrerà nella sua Grignano con un obiettivo: una matriciana con i pomodori del padre, ucciso dal Covid pochi giorni prima e la sorella ricoverata al Santo Stefano. Ultimo compagno di stanza, Marco. La sua è una situazione più critica che lo porta in rianimazione intubato. La sua riabilitazione sarà più lunga, ma vive. In questi tre giorni di resort il suo recupero è incredibile (malgrado abbia perso 17 chili in 15 giorni). Lo attende la sua famiglia a Montemurlo.
Nel frattempo anche mia moglie arriva alle porte della Rianimazione, ma gli aiuti dei sanitari gliela fanno evitare e la reincontro al Misericordia e Dolce dopo 18 giorni di peregrinare tra stanze di ospedale...ci salutiamo e lei rientra a casa malconcia, ma viva. Nel frattempo il 9 aprile anche mia madre raggiunge il Paradiso. Questa è un‘ulteriore mazzata assassina del maledetto virus venuto da Whuan. Ironia della sorte: le cure intermedie sono a 400 metri da casa mia. L’avvicinamento a casa mi ricorda quello che mi raccontava mio nonno Giuseppe di ritorno dalla grande guerra nel 1918, che durò mesi, ma alla fine ce la fece. Il 18 aprile, dopo 26 giorni, Cinzia mi aspetta e ci permettiamo una cena con bistecca e vino Falerno. La vita vince sul Covid, almeno nel mio caso, e per fortuna tanti ancora ce l’hanno fatta. Bastardo di un virus, dissolviti il prima possibile e lasciaci ritornare a vivere. Ai nostri concittadini: mascherina, distanza a due metri, evitare contatti ed incontri inutili. La vita vale più di pochi gesti evitabili.
[FIRMAVET]