di Carlo Baroni
"Il cellulare di Federico può parlare e raccontarci cose". Ne è convinta la madre, Lidia Speri, che dopo otto anni – e l’archiviazione di due indagini – è tornata in possesso dell’apparecchio. "Che ora – dice – passerà nelle mani della nostra criminologa per fare gli accertamenti ed estrapolarne il contenuto". Ma per quale motivo? "Perchè noi non ci arrendiamo e stiamo preparando il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uono – aggiunge –. Si continua. Intanto mettiamo l’attenzione sul cellulare. Ma è solo il primo di una serie di accertamenti che vogliamo fare e sui quali, per il momento, non posso parlare. Ma il cellulare è importante, era stato sequestrato, poi no si trovava più, infine mi è stato restituito. Ora controlliamolo bene". L’intenzione è quello di scandagliare l’apparecchio, quello che continiene, i movimento telefonici e telematici che ancora sono recuperabili sulle ultime ore, o sugli ultimi momenti di vita di Federico Carnicci, 27 anni, nel 2015, quando il Tevere lo resituiì cadavere. Carnicci, operaio che viveva a Santa Croce, la primavera di quell’anno decise di andare a Roma a fare un’esperienza di strada con un gruppo di punkkabestia.
Una notte scomparve. Chi viveva con lui dette l’allarme. Dieci giorni dopo il fiume restituì il corpo. I familiari non hanno mai creduto che il ragazzo potesse essersi tolto la vita in quelle circostanze che da otto anni sono avvolte dal mistero e con un copione mai spiegato. La prima inchiesta finì con l’archiviazione. La seconda (a carico di ignoti), dopo anni, ha fatto la stessa fine. Nei mesi scorsi il gip di Roma ha accolto la richiesta di archiviazione del pm. Dalle circostanze emerse aveva rilevato il giudice, risulta poco credibile che Carnicci "sia stato spinto in acqua da terzi, in un punto dove non si toccava, così come non sembra verosimile che sia giunto in acqua in quanto trascinato per molti metri da parte di altri, contro la sua volontà". Ma è lo stesso giudice, pur archiviando, a lasciare spazio a dubbi. In quanto nello stesso provvedimento di archiviazione rileva che al tribunale non sfugge che qualcuno, al momento della denuncia di scomparsa, "abbia errato o mentito nell’esporre i fatti alle forze dell’ordine".
Una condotta, "pur biasimevole", che però non "appare aver avuto rilievo decisivo nella ricostruzione dei fatti". La famiglia, invece, riparte da lì. Da sotto ponte. Da quella notte. "Dove qualcosa che non è mai emersa è accaduta a mio figlio", conclude Lidia Speri che da anni si batte come una leonessa e non ha mai creduto, che la morte di suo figlio fosse "da attribuire ad una fatalità".