FEDERICO PAGLIAI
Cronaca

La tempesta del 5 marzo, che uccise gli alberi più antichi

Il cipresso di Piazza aveva cinque secoli. Così lo scrittore Federico Pagliai ricorda la sua fine

La tempesta di vento del 2015 (fotocastellani)

Pistoia, 5 marzo 2019 - Più che un bosco pareva uno scenario di guerra, rami come braccia amputate, tronchi sparpagliati a terra come bastoncini del gioco Shangai, echi di venti impetuosi. Nei giorni che seguirono la tempesta del 5 marzo, il cielo sembrava non riuscire a rimanere in alto. Era come privo di sostegno. Stava spalmato sui crinali. A tenerlo su erano stati gli alberi, quelli più grossi: i monumenti vegetali. I sentieri si ritrovarono transennati di piante cadute, schiantate, sradicate, spezzate. Persa la verticalità, quegli alberi sentivano essere alla fine e, da sdraiati, si spremevano in ultimo sforzo di vita facendo spuntare gemme e rametti di aprile in tempo di marzo.

La tempesta aveva lasciato dietro di sé uno scempio di morte ed è stato nell’atto di morire che ogni albero ha palesato qualcosa del proprio carattere. A farne maggiormente le spese sono state le piante più orgogliose e ostinate, ma anche quelle arroganti e persino le più giocherellone. Delle prime facevano parte i carpini. Il vento, loro, lo sfidano e di cedere alle sue sportellate non ci pensano minimamente. Sono caduti interi, rovesciati a terra con tutto l’apparato radicale in triste mostra. Sembrava che il vento si fosse accanito in modo particolare coi carpini e un po’ tutta la montagna mostrava intricate distese di quegli alberi che, nella loro traiettoria di caduta, avevano travolto e schiacciato delle giovani pianticelle le cui uniche colpe erano state quelle di trovarsi sulla linea di caduta degli orgogliosi.

Capita così anche a certi uomini. E ai loro bambini. Chi, invece, gioca con il vento sono le conifere. Ondeggiano e così facendo pare quasi che siano loro a far nascere il vento. Quello del 5 marzo non erano, però, soffi giocosi e la neve verde che ha ricoperto tutto il suolo di aghi strappati agli alberi è stata una testimonianza di odio. A Piazza, poco sopra Pistoia, c’era un vecchio cipresso: dicono avesse più di 500 anni. Era un albero talmente vecchio che le gente del paese lo considerava praticamente eterno. Genti, animali e stagioni ne davano per scontata la presenza: tutto quanto è troppo e sempre presente finisce col diventare assenza. Nessuno badava più a quel cipresso. Era una consuetudine, sembrava eterno, ma non lo era. Cadde giù alle prime ore dell’alba. Rimase un moncone slabbrato. Faceva male a guardarlo. Di ombra, non ne faceva più. O, forse, era scappata via.

Una vecchia leggenda racconta di come, dagli alberi caduti, si allontani l’ ombra. Se ne va e approda al villaggio degli alberi morti. Nel veder arrivare il cono d’ombra del grande cipresso, le altre ombre si dettero un gran fare per trovarle un posto dove sdraiarsi, che a un’ ombra mica è concesso di più. La sagoma del cipresso sentiva freddo. Era spaesata, impaurita. Ogni tanto provava a sollevare la cima, a tentare di capire dove fosse finita, ma siccome era ombra non poté che restare spalmata al suolo. Cercava il suo corpo. Se lo ricordava bene: le gambe possenti, la pelle corrugata e rossastra, i rami fitti e la punta che quando ciondolava nel cielo pareva volerci scrivere qualcosa. In cinque secoli di vita ci si era affezionata a quel suo corpo.

Di esso, nel villaggio grigio delle ombre, nessuna traccia. Benché non tenesse più una fisicità, sentiva, però, dei dolori che mai aveva accusato prima. Nel posto dov’era sempre vissuto c’era il sole e lei, l’ ombra, poteva spostarsi, allungarsi, rattrappirsi. Cambiare posizione, insomma! Quei dolori da posizione obbligata la stavano tormentando e fu proprio nel tentativo di smuoversi un po’ che, dalla sagoma di ombra, saltò fuori una piccola pigna rotondeggiante che, chissà come, era sopravvissuta alla tempesta e al trapasso. Il cipresso, o meglio la sua ombra, rimase stupito. Sulle prime pensò di tenerla a sé, di non lasciarla andare e mantenere così qualcosa che lo collegasse alla vita terrena.

Poi, cambiò idea. Stringere a sé la pallina sarebbe stato solo egoismo. Come estremo ed ultimo gesto di amore decise di lasciarla libera. Fu così che, dal villaggio delle ombre degli alberi morti, la pallina scivolò via, prese velocità, si mise a ruzzolare giù per il pendio della montagna e terminò la sua corsa davanti alla porta di casa di un uomo di Piazza che, assieme ad altri, vide in quella piccola pigna il desiderio di rinascita, di una nuova pianta, di un futuro. Sono passati quattro anni dalla tempesta e oggi un giovane cipresso ha attecchito nel posto che era stato del vecchio albero, vissuto per quasi cinque secoli.