di Lucia Agati
Ogni giorno scopre qualcosa di suo padre. Ritrova scritti, fotografie, diapositive. Legge i suoi sogni, vergati meticolosamente, appena sveglio, su piccole opere di carta dove la ricerca di Gianfranco Chiavacci, anticipatore, negli anni Sessanta, della fotografia come linguaggio assoluto, non si è mai fermata.
E spera, Carlo Chiavacci, che a Pistoia, un giorno non troppo lontano, ci sia, per suo padre, un omaggio perenne al suo genio, che seppe trasformare il bit della "101", la prima macchina Ibm su cui lavorò come impiegato della Cassa di Risparmio, in un’opera d’arte astratta che poteva attraversare il pensiero. Carlo, nato a Pistoia il 18 maggio del 1969, da piccolo voleva fare il chirurgo: "Da grande voglio “chirurgare“", diceva, e faceva ridere tutta la famiglia, poi la passione per la fotografia gli ha fatto attraversare una lunga, entusiasmante stagione accanto a grandi artisti. Oggi fa il gallerista e guarda lontano. Fra pochi giorni partirà per Parigi, destinazione Gran Palais Éphémère, dove le opere di Gianfranco saranno esposte, per il quinto anno consecutivo in occasione del Paris Photo, tempio mondiale della fotografia. Intanto custodisce l’archivio di suo padre, allestito con cura in una casa studio in città, in una palazzina via Frosini. Poi si vedrà.
Chi era Gianfranco Chiavacci, suo padre?
"E’ stato un artista che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta ha compreso l’importanza del calcolatore e ha deciso di portare nell’arte la grammatica del computer, ovvero il linguaggio binario. E’ stato tra i primi al mondo a compiere questa operazione e il primo e unico in Italia. La logica binaria e la pittura producono un reticolo che permette di evidenziare, unire, la teoria binaria e lo spazio pittorico".
Da dove iniziò la sua ricerca?
"Ha cominciato da giovanissimo, da autodidatta, dopo il diploma al Pacini. Nel 1960 fu assunto al Centro elaborazione dati della Cassa di Risparmio, a Sant’Agostino. Fece i Corsi Ibm. In sede avevano calcolatori grossi come una stanza. Lui era già un artista e l’idea di gestire lo spazio in maniera innovativa sfociò nel suo lavoro fotografico, alla fine degli anni Sessanta. L’Ibm era una macchina, la “101“, veniva chiamata direttamente così. E la fotocamera per lui era una macchina, uno strumento per registrare un fenomeno luminoso".
Come associò la fotografia al linguaggio del computer?
"La fotocamera risponde al sistema duale: aperto, chiuso, esposto, non esposto, presente assente. Per lui era uno strumento da testare, come il calcolatore, ma la luce lo interessava ed è proprio quello che sarà presente nelle opere che portiamo a Parigi: come la fotocamera registra il fenomeno luminoso e un metodo scientifico per fare arte. Qui la ricerca fotografica si è rivelata fondamentale. Ci abbiamo creduto".
Chi c’è accanto a lei in questa impresa?
"Accanto a me ci sono Pier Giorgio Fornello, da sempre grande amico di mio padre e suo collezionista dal 1968, e sua moglie Meri Marini, gallerista pratese di arte contemporanea con “Die Mauer“".
Cosa c’è nella libreria del suo babbo?
"La sua libreria rispecchia il suo pensiero filosofico. Ci sono i grandi autori. Amava Proust, e Freud. Scriveva tutti i suoi sogni, si svegliava e li scriveva. Lui è morto il primo di settembre del 2011, dopo una lunga malattia. Gli ultimi suoi lavori erano su carta e risalgono al 2006, piccole opere piene dei suoi appunti. Ha vissuto con consapevolezza la sua malattia e quando ha capito che non ce l’avrebbe fatta ha scritto “Non ho più nulla da dire“. E proprio quelle carte hanno fatto innamorare la Galleria Die Mauer. Anche i suoi libri di filosofia sono pieni di appunti. L’aspetto filosofico della scienza lo ha sempre affascinato: il bit per lui era la minima informazione, grazie alla quale ha portato nell’arte concetti e processi complessi: si cerca l’arte fuggendo la bellezza...questo diceva".
E il suo personale rapporto con la fotografia?
"Ho svolto la libera professione, come fotografo, per circa quindici anni, accanto agli artisti: ritratti e fototografie delle opere, sono stato al fianco di Arturo Carmassi, Castellani, Kounellis, Ranaldi. Appartengo a quella generazione di fotografi che ha impiegato vent’anni per costruirsi una professione che poi è scomparsa all’improvviso, si è dissolta con l’avvento delle tecnologie digitali".
E allora cosa ha fatto?
"Mi sono arrangiato e ho cominciato a studiare le opere del babbo. Internet è stato fondamentale per ricostuire tutto il suo percorso artistico. Nel 1994 ho realizzato un cd rom per promuoverlo, senza le foto, e nel 2012 il primo libro su di lui. E’ stata una scoperta continua che non è ancora finita. Appena un anno fa ho trovato 48 diapositive inedite".
Qual è il suo sogno?
"Il mio sogno è evento che unisca l’opera di Fernando Melani, che ha gettato la luce artistica sull’atomo, e di Gianfranco Chiavacci, che ha trasformato il bit in arte. Un evento che chiarisca a tutti la loro grandezza, due colossi, nati entrambi in questa terra".
Cosa le manca di suo padre?
"Il confronto intellettuale, come con tutti gli artisti, soprattutto Carmassi".