Arrivavano spesso impauriti, tra i più piccoli qualcuno piangeva e i più grandi cercavano di consolarli. Molti venivano dalle campagne e portavano con se’, per il viaggio che durava due giorni qualcosa da mangiare da casa, ma quei pomodori, nessuno ha mai capito se fossero gialli come varietà o a causa delle radiazioni. Erano i bambini bielorussi che dal 1986 venivano a passare l’estate in Valdinievole per respirare un paio di mesi di "aria buona" dopo il disastro di Chernobyl. In molti sono stati ospiti delle famiglie del territorio e qualcuno ha mantenuto il legame con altri bambini, ormai cresciuti, di qui. Manuela Lotti, che all’epoca accoglieva questi bambini insieme ad altri volontari della parrocchia della Fontenova, ricorda bene quell’esperienza di solidarietà. "Ce n’erano tantissimi – racconta Manuela – a volte arrivavano anche in 45 con il bus. Di solito erano gruppetti tutti della stessa classe e della stessa scuola. Non era facile per loro allontanarsi così tanto da casa, in un posto dove non conoscevano la lingua, tra sconosciuti". Monsummano da sempre città vocata all’accoglienza, non ha voltato le spalle a dei bambini che dovevano essere allontanati un po’ dai territori contaminati dal disastro avvenuto 35 anni fa vicino a Kiev. "L’accoglienza a Monsummano era organizzata dalla parrocchia grazie agli attivisti della chiesa evangelica di Altopascio che avevano cominciato ad ospitare questi bambini anche a Pescia". Oggi la zona di esclusione di Chernobyl, un raggio di 30 km dalla ex centrale nucleare, è candidata per diventare patrimonio mondiale dell’Unesco. "I bambini venivano spesso dalle campagne, dove per mangiare si affidavano necessariamente alla terra e questo rendeva sempre più precaria la loro salute. Alcuni venivano appositamente per essere curati. Li portavamo a Calambrone se non ricordo male, erano quasi tutti malati di tiroide. Da noi restavano un mese, tra luglio e agosto, quando finivano le scuole e vivevano con i nostri figli. Mia figlia ha mantenuto l’amicizia con una delle bambine bielorusse che oggi è sposata e vive a Londra con il marito che è un ingegnere, russo anch’egli". Un’esperienza umana di scambio culturale prima ancora che di solidarietà dunque. "Arrivavano con questi vestitini che erano proprio misurati – conclude Manuela Lotti – in molti qui non capivano che avevano poche possibilità economiche, perché questi ragazzi studiavano musica, facevano sport, lezioni di pianoforte. Ma là per loro era tutto statale. Arrivavano qui con quei bus dalla Russia dove sopra c’era di tutto. Un viaggio di un paio di giorni all’andata e poi anche al ritorno. Dovevano passare anche dalla ex Jugoslavia, dove cominciava ad esserci la guerra".
Arianna Fisicaro