REDAZIONE PISTOIA

Da autodidatta a Maestro "Un uomo onesto e umile"

La fatica per emergere, il lavoro da "artigiano", poi il successo e le mostre. Il ricordo dei suoi amici e colleghi, Fabio Carmignani e Salvatore Magazzini

Per descrivere Marcello Scuffi bisogna fare innanzitutto un passo indietro e ripensare l’idea che ognuno comunemente ha del grande artista, del maestro. Che Scuffi sia stato e sia oggi più che mai un maestro lo dicono le sue opere, lo dice il successo, se pur tardivo e guadagnato negli anni, della sua piccola rivoluzione, una scalata fatta in solitaria, lontana dalle mode del momento. Lo dicono le mostre, tantissime, i riconoscimenti, e quel monumento arrivato nel 2015, la pubblicazione del catalogo generale a cura del critico e storico dell’arte Giovanni Faccenda. Ma Marcello –perché era con il suo semplice nome che a tutti si presentava – era soprattutto un appassionato del mestiere che si definiva un artigiano, uno che l’opera la creava con le mani, con la pazienza e con la tecnica. "I greci lo sapevano bene, loro la chiamavno technè – raccontava Scuffi – e in fondo anche io mi ritengo un artigiano. Ogni quadro nasce in casa, è fatto pezzo per pezzo".

Autodidatta, figlio di un sarto che lo voleva prete, Marcello Scuffi aveva frequentato il lieco in seminario, poi abbandonato per seguire la sua vera vocazione. Pur di dipingere aveva fatto qualsiasi mestiere: il tessitore, il tappezziere, l’impiegato. I primi riscontri erano arrivati alla fine degli anni ’70, sempre sostenuto dalla moglie Lia (scomparsa tre anni fa), forse l’unica autorizzata ad entrare nel suo laboratorio creativo. Era lei che lo aiutava a costruire le "basi" delle sue opere.

La tecnica era quella degli "strappi d’affresco" e ce la racconta uno dei suoi amici, il maestro Fabio Carmignani (nella foto con Scuffi): "Quando è venuta a mancare la Lia, Marcello aveva chiesto a me di aiutarlo, perché era un metodo laborioso il suo – spiega Carmignani -. Bisogna preparare uno strato di grassello su una tegola di cotto, su cui poi Marcello dipingeva. Poi bisognava aspettare diversi giorni e quindi staccarlo per poi ricollocarlo su una tavola di legno. Marcello curava le sue opere pezzo per pezzo. E così le sue amicizie: era innanzitutto un uomo vero, umile generoso, nella vita come nell’arte. A me ha trasmesso l’amore per l’acquarello. Una passione che si traduceva nei viaggi, come l’ultimo fatto ad ottobre a Fabriano, per acquistare il materiale da un maestro cartaio".

"Abbiamo iniziato insieme dal maestro Remo Lazzerini – ricorda l’altro grande amico e maestro, Salvatore Magazzini – Abbiamo lavorato spesso gomito a gomito, discutendo notte e giorno della pittura. Avevamo stili diversi, ma ciò che conta era la sua onestà intellettuale e il cuore. Non si è mai fatto sedurre dal canto delle Sirene, per compiacere i critici o il mercato, anche quando altri lo avrebbero fatto".

Le sue opere, dai paesaggi marini alle nature morte e poi il circo, simbolo di un incanto infantile ("quando per la prima volta mia madre mi portò a vederlo", ricordava il maestro), hanno in sé qualcosa di semplice, qualcuno dice di primitivo, e insieme una modernità unica, inimitabile. Ma dietro un’apparente semplicità, di anima e di’ scrittura’, c’era sempre il sogno, quell’amore per i luoghi e i ricordi di una vita che lo ispiravano. "Io – raccontava - ho fermato l’attimo prima di entrare in quella tenda colorata (il circo). Quella porta nera la disegno sempre: è l’ingresso a ciò che ognuno di noi desidera fortemente".

Martina Vacca