
Truffa, usura, ricettazione, autoriciclaggio e falsa intestazione di beni: sono alcuni dei reati, contestati a vario titolo a cento persone, a cui i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Pistoia hanno notificato il provvedimento di chiusura indagini firmato dal sostituto procuratore Claudio Curreli con la richiesta di rinvio a giudizio. Del rinvio a processo se ne discuterà il 30 novembre prossimo davanti al Gup Patrizia Martucci. Secondo quanto ricostruito dall’accusa gli indagati avrebbero fatto parte di un’associazione a delinquere, con base principale a Pistoia e "succursali" in varie città toscane, operante anche in varie località del centro-sud (Sicilia, Calabria e Sardegna), con ramificazioni pure in Piemonte e Lombardia, che, con la complicità di professionisti, aiutava gli imprenditori a commettere reati: bancarotta fraudolenta, evasione ed elusione fiscale, nonché illecito impiego di capitali. I cento indagati (due sono deceduti nel corso dell’inchiesta) sono finiti nell’inchiesta "Amici nostri", condotta nel mese di maggio del 2018, quando vennero eseguite venticinque misure cautelari e denunciate complessivamente 163 persone. Vennero eseguite anche 41 perquisizioni locali e domiciliari, finalizzate alla ricerca di materiale informatico e cartaceo. Le indagini dei erano partite nell’aprile del 2015 concentrando l’attenzione sull’operato di alcuni commercialisti della provincia pistoiese e su imprenditori a loro collegati. Nel corso dell’operazione venne anche eseguito il sequestro preventivo ai fini della confisca di otto aziende, con sedi a Pistoia, Buggiano e Montelupo Fiorentino, operanti nei settori della ristorazione, movimento terra, edilizia, vendita di tabacchi. Nel sequestro preventivo sono finiti anche conti correnti, depositi bancari e postali per un totale di circa trentasei milioni di euro. Come si diceva fra i reati contestati c’è anche l’usura. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori l’usura talvolta veniva esercitata anche nei confronti degli stessi sodali che venivano, secondo la ricostruzione, poi sottoposti ad estorsione per le restituzione delle somme prestate. Coinvolti, oltre agli imprenditori e commercialisti, anche numerosi personaggi contigui alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Questo il "modus operandi" secondo l’accusa: le imprese coinvolte venivano fraudolentemente svuotate delle proprie risorse aziendali, attraverso il depauperamento dell’attivo, determinandone l’insolvenza e, in alcuni casi, il fallimento. Inoltre nel corso delle indagini gli inquirenti hanno ipotizzato che quanto fraudolentemente distratto veniva illecitamente reimpiegato in nuove realtà imprenditoriali che, di fatto, subentravano alle imprese fallite o insolventi e ne proseguivano l’attività, anche attraverso prestanome. "Nel porre in essere tali fatti illeciti - si legge nelle carte dell’inchiesta - alcuni soggetti responsabili trasferivano fittiziamente a teste di legno i beni che, di fatto, rimanevano nella loro effettiva disponibilità affinchè, con la ‘consulenza’ di professionisti contabili, si potesse trarre il maggior illecito vantaggio economico, avvalendosi anche di tecniche di riciclaggio e di auto-riciclaggio".