Sole con scarso supporto pratico e soprattutto morale e mentale. Sono le neomamme che devono confrontarsi con una visione diversa della maternità rispetto alle aspettative. Irene Bernardini, pisana, conosciuta sui social come @lapsicologadelleneomamme, psicologa clinica e psicoterapeuta ad approccio sistemico-relazionale, specializzata nell’area della salute mentale materna, ha appena scritto un libro "Non sono più sola" per Giunti.
Come nasce il volume?
"Dalla mia esperienza clinica: quando ho iniziato a occuparmi di supporto psicologico alla maternità, sapevo che mi sarei confrontata con una fase di vita della donna estremamente delicata e ricca di profonde trasformazioni. Quello che non sapevo era il profondo senso di solitudine che molte donne provano nel loro percorso di maternità. Questa solitudine prende forme diverse a seconda della situazione e della storia personale di ciascuna donna, ma c’è un elemento che accomuna la maggior parte delle solitudini materne: la sensazione di vuoto".
Un vuoto?
"Sì, che riguarda la percezione, che molte neomamme avvertono dentro, di non avere a disposizione le risorse interiori e personali con cui affrontare il percorso della maternità e le sue sfide. Queste donne non si sentono abbastanza capaci, adeguate, competenti, forti per questo ruolo. E a questo si contrappone un pieno - che molto spesso diventava troppo grande - di informazioni e raccomandazioni su cosa fare per promuovere lo sviluppo e il benessere del bambino, da cui si sentono talvolta sopraffatte e messe alla prova. Da qui l’idea di creare un compagno di viaggio per far sentire le neomamme meno sole e per aiutarle a rintracciare dentro loro stesse le risorse che faticano a trovare".
Qual è la difficoltà più grande che incontrano le neo mamme?
"L’attesa e la nascita di un bambino portano con sé un turbine di cambiamenti nelle relazioni, nelle
priorità, nel modo di vedere il mondo e la propria persona. Questa rivoluzione ha un impatto importante sulla salute mentale di molte neomamme, che spesso si sentono sole e inadeguate davanti a una sfida che appare troppo complessa da affrontare: da un lato, ci sono le aspettative irrealistiche che la società impone, dipingendo la maternità come una fase di vita esclusivamente felice e appagante. Dall’altro lato, c’è il peso di dover rispondere ai bisogni del bambino, alle aspettative della famiglia e della società, con il rischio di mettere in secondo piano il proprio benessere. Questa tensione tra la realtà quotidiana e l’ideale irraggiungibile porta spesso a sentimenti di inadeguatezza e di isolamento, accentuati dalla mancanza di un supporto adeguato a livello sociale e culturale".
Si parla molto della scarsità di servizi e strumenti per affrontare la maternità, ma poco della mancanza di una cultura e della mentalità giusta per riconoscere le mamme lavoratrici.
"Una delle sfide più grandi per le mamme lavoratrici è proprio la cultura del giudizio che le circonda. Quando una madre decide di dedicarsi al lavoro, spesso si trova a fare i conti con una pressione sociale che mette in discussione la propria capacità di essere una “brava madre”. Esiste ancora un pregiudizio per cui l’impegno professionale viene percepito come una scelta che sottrae tempo ed energia alla cura dei figli, alimentando sensi di colpa e inadeguatezza nelle donne. Questa forma di giudizio porta molte madri a vivere in una condizione di perenne giustificazione, sia sul lavoro che a casa, cercando di dimostrare di essere sufficientemente presenti in entrambi i ruoli. La realtà è che manca un riconoscimento autentico della complessità che l’essere madre e l’essere lavoratrice comportano. Le madri non solo devono affrontare la sfida di conciliare i diversi ruoli che ricoprono, ma si trovano a farlo in un clima di critica e di competizione, piuttosto che di supporto e comprensione".
Da dove partire per un cambio della società?
"Da un cambiamento culturale profondo, che vada oltre la semplice introduzione di servizi e strumenti. Un punto di partenza fondamentale è il riconoscimento che una madre è, prima di ogni altra cosa, una persona con bisogni, desideri e ambizioni che vanno ben oltre la cura dei figli. Questo implica promuovere una cultura in cui il benessere psicologico delle madri sia al centro della discussione, normalizzando l’idea che sia possibile essere una buona madre senza annullarsi o rinunciare a se stesse e alle proprie ambizioni personali e professionali. Molte donne si trovano a confrontarsi con altre madri in un clima di paragone e competizione su chi “fa di più” o “fa meglio”. Questo approccio alimenta il senso di inadeguatezza e isolamento. È invece fondamentale favorire un contesto di supporto reciproco, in cui le madri si sentano libere di condividere esperienze, dubbi e difficoltà senza il timore di essere giudicate. Solo creando una rete di cooperazione e sostegno, le madri possono trovare conforto e risorse, riducendo il peso della solitudine che sovente accompagna la maternità. Dovremmo passare dalla dimensione del giudizio e della competizione tra le madri e verso le madri ad una dimensione di connessione e cooperazione tra loro e con loro".
Antonia Casini