
Viaggi della disperazione su barche fatte di ferro
Barche di ferro in mezzo al mare che a malapena riescono a stare a galla. Quello che per molti sarebbe un incubo, o un film dell’orrore, è la cruda realtà con cui molti dei migranti hanno dovuto fare i conti prima di essere soccorsi dalla Geo Barents. Un viaggio della disperazione nelle acque del Mediterraneo quello finito ieri con lo sbarco a Marina di Carrara, su imbarcazioni prive di qualsiasi requisito di sicurezza, con il rischio che anche quella flebile speranza di abbandonare il passato potesse affondare con loro. Condizioni difficili testimoniate da Riccardo Gatti, responsabile delle operazioni di salvataggio della Geo Barents che in questi ultimi giorni ha coordinato i lavori di soccorso a bordo.
"Le barche su cui sono stati recuperati i migranti erano estremamente pericolose – ha spiegato Gatti, che già da diversi anni lavora sulle barche di soccorso – e questo perché alcune erano di ferro, con una galleggiabilità ancora peggiore delle altre, che sono comunque precarie". E a bordo sulla “carretta del mare” più malconcia c’era il bimbo di pochi mesi, simbolo di questo quarto sbarco a Marina, tra i primi a scendere ieri mattina durante le procedure sulla banchina. Una storia forse di speranza per questo bambino, accompagnato dalla giovane madre, che spera per lui un futuro migliore. Ma non è la sola storia a bordo, perché come già ascoltato durante gli altri sbarchi dalle parole dei soccorritori, sono sempre molto frequenti i casi di disidratazione, stress fisico e psicologico. I migranti portano sul corpo i segni delle torture che rimangono indelebili nel cuore e nel corpo.
"Abbiamo affrontato tanti casi medici in questi giorni sulla nave – ha aggiunto Gatti – che sono poi stati stabilizzati dal nostro personale a bordo. Una ragazza non riusciva più a camminare e molti altri erano in evidenti condizioni disperate, oltre ai soliti sintomi da disidratazione. Abbiamo anche ascoltato ripetute testimonianze di quanto siano gravi e tragiche le condizioni per loro in Libia, così come di situazioni terribili che avvengono anche in Tunisia". Durante il suo racconto, il soccorritore ha poi sottolineato le difficoltà per una piena efficienza nei salvataggi, causate da una distanza troppo lunga tra il punto di soccorso e il porto scelto per lo sbarco. "Si ripete questa strategia in cui sono indicati dei porti lontani come tappa di arrivo – ha proseguito –, e questo vuole anche dire diversi giorni di navigazione per tornare indietro con la nave, lasciando quindi sguarnite le zone di soccorso. E se le persone non vengono soccorse possono morire".
Daniele Rosi