L’esplosione e una lunga scia di sangue. Il mistero irrisolto dell’omicidio Dazzi

L’ingegnere di Carrara fatto saltare in aria sulla sua Alfa 164 una mattina del 1991: l’ombra della criminalità organizzata

Una foto dell'epoca

Una foto dell'epoca

Carrara, 10 agosto 2021 - Il Mondiale di calcio che incendiò l’Italia nell’estate del 1990 fu la più grande mangiatoia di denaro pubblico della storia repubblicana. Fu il paradiso dei palazzinari, la sagra del cemento armato, il luna park dell’urbanistica più sguaiata e caprona. Ma soprattutto fu la sala giochi della criminalità organizzata. Miliardi di miliardi di miliardi di vecchie lire furono stanziati dal governo per rendere il nostro Paese all’avanguardia, per trasportarlo nel futuro col tappeto volante dell’evento più grande del pianeta assieme alle Olimpiadi. Peccato che Tangentopoli non fosse ancora arrivata e l’illegalità divenne il menù del giorno dove lo Stato apparecchiava la tavola, la criminalità organizzata mangiava e alla fine, infatti, lasciava pure la mancia. I numeri: Italia ’90 costò settemila miliardi di lire, mille solo per gli stadi. Di questi, 226 per il Delle Alpi di Torino, con un rialzo del 224% (l’Olimpico di Roma si fermò al +181%) della spesa prevista e con tanto di inutile e scomoda pista d’atletica: chiuso nel 2006 e demolito nel 2009, oggi su quei terreni sorge lo Juventus Stadium. Ci furono diverse inchieste, quasi tutte finite con un nulla di fatto, e due proposte d’inchiesta parlamentare (1992 e 1999) mai partite. Ma gli sperperi non si fermarono agli stadi. Solo nella capitale furono costruite diverse stazioni. La medaglia d’oro alla memoria va a quella del Farneto, detta Olimpico-Farnesina: alla modica cifra di 25 miliardi di lire venne usata solo in occasione delle sei gare dei mondiali del 1990 svoltesi allo stadio Olimpico e per ogni giornata era previsto il passaggio di dodici convogli. In proporzione, direi caruccia.

Ma nel sottobosco di Italia ’90 c’era di tutto e a oggi c’è chi ricollega a quegli eventi pure uno spettacolare e macabro delitto, tuttora irrisolto, che sconvolse Carrara trent’anni fa. Sono le 8.30 del mattino del 15 maggio 1991 a Marina di Carrara quando l’ingegner Alberto Dazzi, 53 anni, saluta sua moglie Vera, dà un bacio ai figli adolescenti Francesca e Giorgio ed esce di casa. Sale sulla sua Alfa 164 e, come ogni mattina, si dirige verso il suo studio a Carrara. Ma quella mattina non ci arriverà mai. Perché venti minuti più tardi, subito dopo aver rallentato nei pressi di un incrocio, la macchina salta per aria. Sotto il sedile di Dazzi, qualcuno nella notte ha nascosto un candelotto di cheddite del peso di 100 grammi che, quando esplode, fa a pezzi il noto professionista di Carrara.

E’ un attentato clamoroso, da queste parti non si è visto mai. Un’autobomba è roba da mafia, da terroristi mediorientali. Non da gente di qui. Ma sì, certo. E’ noto che da queste parti gli anarchici hanno casa e tradizione. E soprattutto esplosivo in quantità industriale grazie all’estrazione di marmo dalle cave. Ma un vecchio patriarca di quel movimento, sentito nelle ore successive alle morte di Dazzi, si accende una sigaretta e, con calma olimpica, soffia il fumo in faccia all’interlocutore: "Di solito gli attentati li rivendichiamo, noi". Era la pista più facile, ma muore subito. Nessuno si attribuisce la paternità dell’attentato che ha devastato il corpo di Dazzi facendo saltare in aria la sua auto in pieno giorno su un viale. E poi quella era una bomba maledettamente seria: aveva un timer, a tempo o radiocomandato, oppure un innesco di tipo termico collegato al tubo di scarico. Un micidiale e implacabile strumento di morte.

Ma chi è Alberto Dazzi? E’ uno stimatissimo esponente della Carrara-bene. Simpatizzante repubblicano, si è anche scontrato col mondo anarchico perché li aveva sfrattati dalla loro sede storica, un paio di stanze presso il teatro Politeama che intendeva ristrutturare. Aveva anche ricevuto qualche telefonata minatoria, ma niente di serio. E dunque gli investigatori scavano, Chi ce l’aveva con Dazzi? C’è, fra i suoi mille interessi, quello che ha provocato la sua morte? Uno salta gli occhi agli inquirenti. Si chiama Carrara Marble Hotel e doveva essere l’hotel dei sogni di Carrara: 150 camere, due ristoranti, discoteche, aree fitness, sala convegni, un parcheggio sotterraneo di 3.500 metri quadrati. E si farà con i soldi di Italia ’90, otto miliardi di lire (ne arriveranno sei), anche se la partita più vicina si gioca a 110 chilometri di distanza, a Genova. Il cantiere apre nel 1988. Lo scorso aprile, una nuova proprietà che ha acquistato lo scheletro all’asta nel 2003, ha promesso che i lavori finiranno e che l’hotel finalmente sarà aperto. Sono passati solo 33 anni. Insomma, l’albergo dei sogni si diceva. Peccato fosse accanto al casello dell’autostrada. E che l’avessero costruito senza l’ingresso. E no, non scherzo. Non c’era l’ingresso principale. Per entrare si sarebbe dovuto passare da un viottolo sul retro. Ed è per questo che i lavori non finiscono mai. Una storia kafkiana che manda sotto processo anche dei politici locali, ma l’accusa non regge all’aula di tribunale: tutti prosciolti.

E come si collega Dazzi al Marble Hotel? E’ socio dell’architetto Silvestro Telara, direttore dei lavori e deus ex machina del progetto. E poi c’è qualcosa di strano in tutta la storia del Marble. All’inizio la proprietà dell’hotel è in mano solo alla Scaviter di Clemente Benedetti (proprietario del terreno), ma poi passa a un consorzio dove l’82% delle quote è della Orcagna Costruzioni. E cosa si scoprirà essere la Orcagna Costruzioni? Secondo le indagini della Direzione investigativa antimafia, nient’altro che uno strumento in mano alla criminalità organizzata, alla camorra, che usa quell’area della Toscana come retrobottega per fare soldi o riciclarli. Troppo goloso il piatto dei soldi di Italia ’90 per non aggiungere un posto a tavola. Ad ogni costo.

Fu la pista più battuta dagli inquirenti per risolvere il delitto di Alberto Dazzi, che forse rappresentava un ostacolo e andava rimosso nel modo più brutale ed estremo possibile. E spettacolare, anche. Con una macchina fatta esplodere per strada. Così da mandare anche un messaggio. Gli affari sono affari. E certi affari si lasciano stare. Perché il conto, poi, si paga col sangue.