Covid, l'infermiere: "Spesso torno a casa piangendo". La lotta quotidiana contro il virus

Le parole del giovane operatore sanitario: «La cosa che fa più male? Leggere frasi del tipo: erano solo anziani e immunodepressi»

Operatori sanitari

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Massa, 12 novembre 2020 - Ha voglia di parlare, di sfogarsi. Come tanti altri suoi colleghi che da marzo combattono il nemico invisibile chiamato Covid19. Alessio Loperfido ha 27 anni, è originario di Matera. Da due anni e mezzo lavora come infermiere al Noa di Massa. Ed è proprio qui ha trascorso tutte le sue giornate da marzo, quando tutto è iniziato. In che reparto lavora? «Io sono nella sub-intensiva Covid che è stata allestita per dare un supporto alla rianimazione. Qui arrivano quei pazienti che dopo i primi sintomi non particolarmente gravi, poi peggiorano a vista d’occhio e devono passare al livello successivo che è quello sub-intensivo dove gli viene messo il casco per la ventilazione non invasiva. Se peggiorano ulteriormente allora si passa all’intubazione».

Glielo devo chiedere. Ha paura? «Mentirei se non ti dicessi che è così. Ma ho un forte senso del dovere che è legato a quello che faccio. Quindi quando mi hanno chiesto se volevo continuare a stare in un reparto Covid, io non mi sono tirato indietro». Si ricorda il momento in cui ha iniziato ad avvertire il pericolo? «All’inizio c’è stato panico generale perché non conoscevamo il virus, ma poi l’abbiamo presa di petto, certo eravamo scoraggiati perché l’ospedale ha iniziato a riempirsi verso metà marzo. Molti pazienti venivano soprattutto dalla Lunigiana. Ci siamo detti che dovevamo provarci e metterci in gioco tutti insieme». Cosa è cambiato per lei rispetto a prima? «Prima eravamo più agguerriti, ora siamo stanchi ma lo siamo soprattutto perché dopo avercela messa tutta, ritornare punto e a capo e leggere di attacchi da parte di persone che dicono che il virus non esiste, che creiamo allarmismi, che mandiamo all’aria l’economia, fa male. E mi ha fatto arrabbiare leggere di chi dice che “sono morte solo persone anziane e immunodepresse”. Ma ci rendiamo conto? Parliamo di genitori, nonni, zii, parenti di qualcuno che hanno lasciato un vuoto. E sono categorie che vanno protette. Nonni, zii, parenti che lei ha assistito. «Si ma questa volta è stato diverso. Quando indossiamo il camice, noi siamo quasi costretti a crearci una sorta di scudo. Con il Covid è stato diverso perché queste persone, quando vengono qui, sono sole. Quindi il nostro lavoro è stato soprattutto di empatia. Non ti nascondo che in questi mesi sono tornato a casa più di una volta piangendo. Spesso abbiamo fatto da tramite con i loro parenti. Anche perché spesso, avendo il casco per la ventilazione, non riuscivano né a sentire né a parlare. E quindi piangevano. Io personalmente capivo cosa provasse chi era a casa perché in passato ho avuto una persona a me cara che stava male e io ero lontano». Si crea un legame con il paziente dunque? «I pazienti non vedono il nostro aspetto perché noi siamo tutti bardati, quindi ci riconoscono dalla camminata e quando succede è come se gli brillassero gli occhi e si tranquillizzano. Il problema è se muoiono. Vederli senza vita, dover avvertire i parenti, non si può descrivere». C’è qualcuno che le è rimasto a cuore? «L’altro giorno un paziente che è arrivato in sub-intensiva ha ricevuto una chiamata dal figlio. Lui si è messo a piangere perché non riusciva a sentirlo a causa del casco e mi ha chiesto di parlare con lui. Il figlio gli diceva “papà non mollare, ce l’hai sempre fatta”. Sono emozioni che se non le provi non le comprendi». La difficoltà maggiore che incontra? Guarda, sembrerà una stupidaggine, ma con il fatto che abbiamo la tuta è difficilissimo poter andare in bagno durante il turno, perché ci vuole comunque un po' per levarla e quindi spesso non ce la fai con i tempi. E poi mi capita spesso, a me come ad altri, di non riuscire a dormire e di fare incubi. L’altra volta ho sognato che il Covid fosse una persona e mi inseguisse». Haa avuto paura di contagiare qualcuno? «Certo che sì. Spesso mi sono sentito dire “eh vabbè è il vostro lavoro che comporta questo rischio”. Per carità sì, ma ciò non toglie che questa cosa spesso non ci abbia permesso di lavorare in maniera serena». La situazione di emergenza è quella di marzo? Si ci siamo ricascati. Il problema fondamentale è che si finisce con l’ingolfare gli ospedali. In generale le strutture sanitarie hanno dovuto riadattare tutti gli spazi, hanno dovuto allestire nuovi reparti perché mai nessuno avrebbe potuto immaginare che avremmo vissuto questa pandemia. Anche noi ci siamo dovuti riadattare, fortunatamente abbiamo avuto fin da subito tutti i dispositivi di sicurezza. Le hanno fatto rabbia i comportamenti di parecchie persone quest’estate? «Si parecchia. Ho visto che se ne fregavano, in stile “non ce n’è Coviddì”. Ecco perché siamo scoraggiati, anche perché sapevamo che sarebbe successo quello che sta succedendo ora che è ancora in divenire purtroppo».