ORNELLA PASQUINI
Cronaca

"Da bimba vissi l’orrore della strage di Farneta"

Ornella Pasquini ricorda i rastrellamenti dei tedeschi e la strage della Certosa di Farneta del settembre 1944

Ornella Pasquini

Lucca, 1 settembre 2019 - Io ricordo. Era l’estate del 1944, sono episodi che appaiono ora come frammenti di sogni offuscati dagli anni ma che hanno lasciato nel mio intimo disperata angoscia. Abitavamo in via Sarzanese al numero 2 nella stessa casa dove abito tutt’ora con la mia famiglia. Dietro casa c’erano solo campi, campi lunghi contornati da pioppi o salici, campi coltivati a grano e fieno, io con le piccole amiche Laura e Anna e forse alcuni ragazzetti del posto giocavamo in quei campi a volte facendo ruzzoloni e giravolte sui covoni del fieno appena radunato dai quei pochi contadini che ancora osavano lavorare nonostante i pericoli incombenti del fronte ormai vicino.

Giocavamo spensierate forse per la piccola età ma prontamente richiamate dai nostri genitori non appena la sirena dell’allarme suonava lugubre annunciando pericolo imminente. Stavamo fuori in quei campi a guardare nel cielo di un limpido azzurro le grandi formazioni di fortezze volanti americane che, così ci dicevano, andavano al nord per bombardare la Germania, lasciando dietro di se grandi scie di vapore bianco, suscitando in noi meraviglia e curiosità. E la sera, a guardare stupefatta e impaurita i bengala che tutto illuminavano con quella luce livida e mio padre Italo che ci intimava di uscire di casa per nasconderci in qualche fossa dietro casa per cercare salvezza e lui allora mi proteggeva col suo corpo che mi dava calore e sicurezza.    Cresceva la preoccupazione e la paura, continui movimenti sulla strada di mezzi militari tedeschi, truppe in movimento; in cielo i caccia in picchiata mitragliavano verso Ponte San Pietro: ma mia madre per non mettere troppa paura minimizzava anche se io così piccola già mi rendevo conto della situazione, sapevo degli scontri a fuoco laggiù verso Pisa dei quali si sentiva continuamente parlare. Un giorno, due ufficiali tedeschi requisirono una stanza di casa nostra, ricordo che vi istallarono un barile di birra che a sera bevevano in gran quantità, cantavano e scherzavano. Cantavano Lilì Marlene, che ancora risuona nelle mie orecchie. Fecero spillare il barile con una gran botta, la birra e la sua schiuma imbrattarono le pareti della stanza con grande rammarico di mia madre. Cantavano in una lingua per me misteriosa ma ruvida, questa era la mia impressione. Malgrado tutto ci furono momenti di una certa amara allegria.    Non ho ricordi di cosa facessero mio padre, mia sorella Giuliana e mio fratello Mariano. Ricordo che mio padre aveva una motocicletta Guzzi che nascose in una capanna vicina e che un giorno arrivarono alcuni signori vestiti di nero e chiesero minacciosi notizie della moto. Mio padre forse per non avere guai li accompagnò alla capanna e consegnò loro la moto. Mia madre donna previdente aveva nascosto le due ruote di scorta che salvò dalla ‘rapina’. Quelle ruote furono poi vendute per far fronte alla carestia di quei tempi. In casa decisero di trasferirsi a Farneta perché abitare vicino a quella via Sarzanese, strada di grande comunicazione, era ormai troppo pericoloso. A Farneta abitavano mio nonno, mio zio Ugo fattore della certosa, altri fratelli e sorelle di mio padre e tanti cugini. Ritennero che quello fosse un posto sicuro.    Mia madre, forse per qualche presagio, fu contraria a lasciare la propria casa ma non fu ascoltata e così il trasferimento fu deciso. Farneta, in quel tempo fu per me fanciulla un’oasi di pace e di tranquillità ritrovata, fummo ospitati nella fattoria, grande e bella abitazione, contornata dai poderi, dalle case coloniche, e ancora ben fornita di cibi e bevande, casa accogliente, familiare. Ritrovai i parenti, gli zii, le cugine con le quali incoscienti giocavamo nei campi, andavamo a bagnarci nella gora vicina, ci facevamo dispetti come tutti i bimbi. Risuonano ancora la voce risoluta ma bonaria di mio zio Pietro che ci rimproverava per il troppo chiasso, e le voci preoccupate dei grandi che parlavano del fronte, degli Alleati che presto ci avrebbero liberato, notizie che giungevano dai numerosi sfollati livornesi e pisani che si erano rifugiati nelle case e nella provvidenziale Certosa; si parlava dei rastrellamenti, delle deportazioni che avvenivano, degli uomini che si nascondevano come potevano, nelle soffitte, nei boschi, in rifugi scavati sotto terra e ahimè nell’accogliente Certosa. Si parlava di un sergente tedesco che gravitava intorno alla certosa, dichiarandosi amico del frate guardiano del convento, parlava e scherzava con le ragazze, dava in qualche modo fiducia, “anche fra di loro c’è gente per bene!” diceva qualcuno. La Certosa era un luogo sicuro e protetto dal Signore, si credeva. Anche mio padre, mio fratello Mariano, mio zio Pietro, mio zio Ugo, mio cugino … e altri persone importanti vi trovarono rifugio.   Rircordo mia madre che la sera avrebbe voluto che i suoi cari, almeno loro, tornassero a casa. Quel sergente creava in lei sospetti e timori. Quel buon sergente un “bel giorno” con la scusa di salutare il padre guardiano prima della ritirata , si fece aprire il grande portone, le SS entrarono e il convento fu violato, commettendo quel terribile fatto di cui tutti noi siamo oggi a conoscenza: il tremendo eccidio della Certosa di Farneta. Mio padre fu deportato, mio fratello Mariano deportato in Germania (aveva sedici anni), mio zio Pietro torturato e impiccato, mio cugino Alberto (diciotto anni) impiccato insieme a molti altri civili e religiosi fra i quali Padre Costa.