Quando da ragazzi frequentavamo il baluardo San Martino, che noi chiamavamo “dei bagnetti“, avevamo il vizio maledetto di lanciare in aria i sassi per vedere chi era più bravo a raggiungere la massima altezza. Era ovvio che qualche sasso finisse sul tetto della casermetta-studio con lucernario del pittore Arturo Daniele, che usciva fuori incazzato per farci smettere. Col suo pizzetto bianco incuteva rispetto e per noi era un pittore famoso. Ce lo confermava la presenza di personalità che spesso lo venivano a trovare: per noi, ammiratori, ma nel dopoguerra sapemmo che, sì, erano ammiratori e critici, ma anche antifascisti che si riunivano per discutere, considerando lo studio meta e luogo tranquillo di rifugio spirituale per intellettuali come Carlo Ludovico Ragghianti. Proprio Ragghianti fu uno dei primi che fece una felice disanima artistica della pittura di Daniele, che impegnò tutta la sua vita a dipingere, partecipando a mostre importanti, soprattutto a Milano. Personalità complessa ed eclettica dagli ampi interessi, fu seguace della teoria economica anarchica dell’hallesismo. Nella pittura, a cui si dedicò con successo, tanto che sue opere sono nella galleria dei più importanti pittori lucchesi di Villa Guinigi, dopo una fase di impronta romantica si appassionò alla ricerca di un colore-luce che evolveranno in una risoluzione cromatica più ariosa e intensa. Nella grande tela del Venerdì Santo si scorge una tematica nuova, anticonformista, che avrà ulteriori svolgimenti quando l’evoluzione verso le incerte forme del divisionismo gli consentirà un’espressione più ampia e ricca di significati allusivi. Nei quadri della prima guerra mondiale, a cui partecipò, c’è traccia dell’orrore dei morti e affiora l’ansia di giustizia che troverà sfogo in convinzioni sociali o in teorie astratte come l’hallesismo. Singolare lo studio insistente sul postimpressionismo, dove dipinge a puntini o a tratti.
Mario Rocchi