“Donne e carcere“: un rapporto problematico

È il titolo del convegno organizzato al San Giorgio, che ha messo sul tavolo una serie di questioni lacunose del sistema giudiziario

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di Teresa Scarcella

“Il carcere non è per le donne“. È il commento di alcune donne detenute e citato ieri, durante il convegno organizzato dalla casa circondariale di Lucca (che non ha più una sezione femminile) e dall’osservatorio carcere della Camera penale, al quale hanno partecipato autorità e istituzioni. Un’iniziativa con cui la direttrice del San Giorgio, Santina Savoca, e l’avvocato Alessandro Maionchi, responsabile dell’osservatorio, hanno voluto aprire le porte del carcere alla società civile. Il tema, è stato detto, non è dibattuto. Se ne parla poco. A parlare, ieri, c’era un gruppo di esperti che tocca con mano le lacune del sistema.

Si tratta di Giulia Mantovani, docente dell’Università di Torino, Luca Bresciani, dell’Università di Pisa, Valeria Marino, magistrato di sorveglianza di Livorno, l’avvocato Sabrina Viviani, responsabile nazionale dell’osservatorio pari opportunità Ucpi, l’avvocato Maria Brucale del foro di Roma, Sofia Ciuffoletti, direttore del centro di documentazione “Altro diritto“ e Roberta Careddu, dell’Uepe di Lucca. Hanno portato le loro conoscenze all’interno del convegno, mettendole a disposizione del resto della società. Nella speranza che passi un messaggio: quello che accade all’interno delle carceri è, deve essere, interesse di tutti. Per un motivo molto semplice, ma non scontato: chi vive tra quelle quattro mura sono persone, con diritti, bisogni e necessità. Come, per fare un esempio non a caso, quello dell’affettività e della sessualità, negata alla stragrande maggioranza dei detenuti, con pesanti conseguenze. Un altro tema di cui non si parla.

Gli spunti di riflessione nati dal dibattito sarebbero tanti. Ma per motivi di spazio è giusto focalizzarsi sul tema centrale. Il carcere non è per le donne. È emerso che rappresentano circa il 4% della popolazione carceraria, sono quindi una minoranza. E questo, allo stato attuale delle cose, significa che hanno meno voce in capitolo, meno opportunità, meno considerazione. "È emblematico che a capo del dipartimento di amministrazione penitenziaria non ci sia mai stata una donna" hanno fatto notare. Tutti uomini. Il risultato è che "il carcere è per natura un’istituzione declinata al maschile, anche nella definizione degli spazi".

"Basti pensare banalmente ai servizi igienici non adeguati alla fisicità femminile. Alle attività che vengono spesso riservate alle donne in carcere (ovvero quelle per antonomasia femminili), inadeguate ai fini di un reinserimento nel mondo del lavoro e al raggiungimento di una dipendenza economica". Pensiamo poi alle persone transgender, "spesso costrette a vivere in sezioni protette all’interno delle carceri maschili, per il rischio di essere violentate" (e qui ritorna il tema della sessualità negata). Pensiamo alla maternità in carcere. “Un ossimoro“ è stato definito ieri, ma un dato di fatto, tra l’altro a esclusività della madre: sono una trentina oggi i bambini che vivono in una struttura carceraria.

" È del 2011 la legge con cui sono state previste delle misure di detenzione alternative, ovvero le casefamiglia protette, per le quali, però, non sono stati previsti finanziamenti statali prima del 2020". La maggior parte di loro finisce negli Icam, istituti a custodia attenuata per le madri. Insomma, di problemi ce ne sono tanti. Molti dei quali derivano da un concetto che spesso sfugge, dentro e fuori dalle carceri: parità di genere non significa azzerare le diversità fisiche, biologiche, le diverse esigenze. Al contrario significa rispettarle.