
di Marco Magi
Più il ‘trovatore’ italiano che il ‘menestrello’, un ‘malandrino’ che è tutto fuorché, come alcuni – molto pochi ormai – pensano, soltanto il cantautore di ‘Alla fiera dell’est’ e ‘Cogli la prima mela’. Angelo Branduardi sarà il protagonista, domani sera, di un imperdibile live al Teatro Civico.
Un concerto ‘classico’ per gli spettatori spezzini?
"Sarà particolare, racconterò pure qualcosa della mia vita avventurosa. Speciale, soprattutto, perché in duo, all’insegna del meno c’è più c’è. È un esperimento con un polistrumentista di grande genialità come Fabio Valdemarin. Poiché vengono prima il colore, l’atmosfera, la magia, il misticismo, che l’impatto. Proponiamo un repertorio dove ci sarà tutto, non i brani sconosciuti, ma la stragrande maggioranza di quelli che ho suonato pochissimo. Ho semplicemente compiuto una ricerca tra i fans club, per conoscere quali pezzi volessero ascoltare e che non avessero mai osato chiedere. Senza trascurare, ovviamente, la presentazione, sebbene in forma diversa, dei grandi successi che mi sono capitati durante una lunga carriera. Speriamo, se si crea l’atmosfera, che il teatro si alzi come un tappeto volante".
Perché, fin dall’inizio, una vita da solista?
"Da giovane e sconosciuto ho fatto da supporto a vari gruppi. E suono volentieri con il mio quintetto, ma io sono un artista, scrivo io, canto io, seppur all’inizio non mi piacesse. Non ha senso essere omnicomprensivo. Ho partecipato, discograficamente, a opere del Banco del mutuo soccorso e della Premiata Forneria Marconi, tra gli altri, ma non è quella la mia tazza di tè, io sono un autore".
Quanto merito dà all’aver vissuto nel ventennio d’oro della musica italiana?
"Quegli anni, Settanta e Ottanta, sono stati caratterizzati da un boom di talenti, non solo nella musica, molti sono rimasti, come me. Con un’incredibile vitalità artistica e umanistica, si pensava davvero che si potesse cambiare il mondo. Non so come mai, ma veniva di rimando dall’America, dai Paesi anglosassoni, la cultura beat, hippy, il grande interesse verso tutto, i cinema erano strapieni, la gente comprava un sacco di libri. Non voglio dire che si stava meglio quando si stava peggio, perché tutto ciò ha portato agli ‘anni di piombo’, non bisogna dimenticarlo. Sicuramente il mondo era ben più produttivo di oggi, certo più scalcinato e più incasinato, ma diverso".
Il suo grande successo in Italia, il suo grandissimo in Europa. Qual è il suo segreto?
"Forse ciò che propongo è unico. Non vengo da una scuola, non ne ho creata una, corro da solo... così arrivo sempre primo. La mia forma musicale ha radici anche nella musica classica, ho studiato il violino e dopo il diploma mi sono interessato alla musica antica, che approfondirò al Teatro Civico con tre brani stupendi, non tediosi. Quasi tutti i miei colleghi hanno provato ad andare al di là di Chiasso (dove vi è il confine tra Italia e Svizzera, ndr.), quasi tutti non ci sono riusciti, quasi mai i cantautori".
Cosa pensa della musica che ascolta oggi?
"La conosco poco, mi danno fastidio i testi misogini e omofobi dei rapper, quello sì. Per quel poco che ho sentito non è una gran roba, sarà che vengo da un periodo magico difficile da eguagliare...".
E la moderna gavetta?
"Ai tempi ‘che Berta filava’, si davano 5 anni di tempo: col primo disco andavi in perdita, col secondo in pari, col terzo guadagnavi. Ora ti danno 5 secondi, se sbagli, il tuo album è il primo e l’ultimo. Però non è giusto, una persona non ‘nasce imparata’, ci vuole la polvere dietro le spalle".
Perché ad un certo punto della sua carriera, ha preferito non proseguire con i megaconcerti? C’è chi, come il suo quasi coetaneo Vasco Rossi, non smetterebbe mai...
"Vasco, però, rispetto ad altri, è bravissimo, anche se, per la verità, già in Svizzera non lo conosce nessuno. Dopo qualche decennio da rockstar, nei quali mi sono divertito come un matto su palchi pazzeschi, una sera, con davanti 120mila persone, ho capito che avevo bisogno di qualcosa di più intimo, dove potessi essere meno evidente, meno plateale, più delicato e sottile, meno isterico. È durata vent’anni, non era più quello che volevo fare. Gli amici, i fan, hanno appreso questa sterzata brusca e molti si sono allontanati per poi riavvicinarsi. Continuo oggi questa fase in cui amo più suonare che registrare, fare dischi, e dove mi getto in progetti rischiosi come questo tour".
E dopo quella virata, le colonne sonore?
"Anche. Diverse le mie avventure in quel campo, ho addirittura avuto la fortuna di suonare per l’ultimo film in cui compare John Huston. Ho lavorato tanto con Ennio Morricone, ero uno dei suoi solisti preferiti. Ecco, se avessi continuato a fare la rockstar, Ennio non mi avrebbe mai chiamato".
Numerosi gli incontri straordinari nella sua carriera. Qual è stato il più costruttivo?
"Ognuno di loro ha avuto un’importanza determinante, come Fellini. Dal punto di vista musicale Morricone, però non dimentico Crosby, Stills, Nash & Young. D’altra parte ho avuto l’onore di avere come insegnante Franco Fortini, uno dei più grandi intellettuali del dopoguerra".
Ormai sono 50 gli anni di carriera. Da ragazzo cosa immaginava per il suo futuro?
"Non avrei mai pensato di cantare, di diventare un cantautore, dopo i miei studi classici. Episodi svariati, le cosiddette sliding doors e sono arrivato a scrivere delle cose, per poi interpretarle dopo una lunga gavetta, come capita a tutti quelli che propongono esperienze particolari in Italia. In Europa, invece, ci ho messo una settimana a farmi conoscere. È bastata un’apparizione televisiva in Germania".