
Gigi
Paoli
Si potrebbe essere tentati a dire di sì, ma faremmo un errore. Perché l’uso dei social ha solo peggiorato qualcosa che fa parte del nostro animo da ben prima che i social nascessero, cioè dalla fine degli anni Sessanta. E’ quello che in inglese si chiama ’Bystander effect’, ’Effetto spettatore’, un fenomeno psicologico che si verifica quando molte persone assistono a un fatto violento senza offrire aiuto alla vittima. Descritto per la prima volta nel 1968 in una ricerca da Bibb Latané e John Darley, psicologi sociali statunitensi a seguito di un famoso caso di omicidio a New York (una ragazza ammazzata a coltellate in strada per mezz’ora davanti a 38 testimoni), rivela che maggiore è il numero degli spettatori e minore sarà la probabilità che qualcuno intervenga. Questo avviene perché la responsabilità si distribuisce fra tutti i testimoni riducendo così il senso di colpa di ognuno per il mancato intervento. In altre parole, ci si affida agli altri, un circolo vizioso che porta all’immobilità in base al pensiero contagioso che, "se nessuno fa nulla, allora non è un problema". I social network, e la voglia di visibilità che con essi deflagra in ciascuno, hanno spinto ancora oltre questo fenomeno. Non solo si resta a guardare, ma si filma, si alza, appunto, la barriera della telecamera del cellulare, come se l’essere protagonista della condivisione del fatto, attraverso la riproduzione del video e la sua condivisione on line, funga da autoassoluzione per il mancato intervento. Tradotto: "Io ho fatto il video, io racconto il fatto, vediamo se qualuno interviene". Peccato che l’Effetto spettatore resti, anche on line, un minimo comun denominatore del nostro sentire e il senso civico che spinge all’intervento si diluisca tra i vari follower come l’acqua nel mare. I numeri non mentono mai. La ricerca statunitense Latané-Darley evidenziò che, davanti a un’emergenza, l’85% dei testimoni interviene se è solo; in presenza di più persone, invece, la stessa percentuale crolla al 31%. Un’altra analisi ha rivelato che nel 93% delle volte le vittime di molestie sessuali segnalano che il fatto avviene in presenza di altri. In Svezia l’Unicef ha usato questa frase per una campagna pubblicitaria: "I like non salvano vite". E come ha detto Carmelo Bene una volta: "L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla". Ma ora, aggiungerei, dilata anche il menefreghismo.