GIOVANNI BOGANI
Cronaca

Quasi amici, François Cluzet in città: "Io, piccolo in mezzo ai grandi artisti"

L’attore, noto per il ruolo del tetraplegico Philippe, presenta il nuovo film al France Odeon .

Quasi amici, François Cluzet in città: "Io, piccolo in mezzo ai grandi artisti"

"Firenze? Io amo l’arte, la pittura, mi interesso molto alla scultura: non posso che amare Firenze", dice François Cluzet. Noi abbiamo amato lui per la sua interpretazione del tetraplegico Philippe in "Quasi amici", uno dei più grandi successi del cinema francese di tutti i tempi. E ieri, il festival "France Odeon" lo ha celebrato, proiettando il film "Un métier sérieux", in cui Cluzet interpreta un professore disilluso, disincantato, in una scuola francese in cui sono difficili i rapporti fra insegnanti e studenti. E lo ha celebrato con il premio Foglia d’oro Manetti-Battiloro, il riconoscimento più importante del festival. "Firenze? È una città che difende il suo passato: c’è una legge per cui non si può costruire un edificio come si vuole e distruggere l’immagine della città. In Francia non succede. E sono felice di essere qui, in mezzo a questi grandi dell’arte di tutti i tempi, io che sono un piccolo attore, un artista minuscolo, mi sento confortato", dice.

Ma lei è un grande attore: ha interpretato più di cento film, ha vinto due César, gli Oscar francesi…

"No, mi ritengo piccolo. E per fortuna, così ho meno paura di morire. Se pensassi di essere un grande artista, avrei paura di morire, di privare il mondo di qualche cosa. Invece così rimango leggero e non ho paura. Non ho voglia di prendermi sul serio, perché non mi resta molto tempo da vivere. Se penso che non sono qualcuno di importante, mi pesa di meno il pensiero di andarmene. Non sono innamorato di me stesso, amo la tenerezza, l’amore e la curiosità".

Qual è il suo metodo per interpretare un personaggio?

"Sono un istintivo che non si fida di se stesso. Prima del ciak, leggo e rileggo il copione, lavoro molto prima di andare sul set, imparo molto bene i dialoghi, per poter andare sul set più tranquillo, e non avere da occuparmi che del piacere di essere lì, a recitare. Ci sono attori che soffrono quando sono in scena: ma cambiate mestiere, vorrei dire loro! Il cinema deve essere un piacere. Per noi e per il pubblico".

Cosa significa per lei essere attore?

"Riprendo quello che diceva Ingmar Bergman: non dimentichiamo che si fa questo lavoro per intrattenere, per divertire il pubblico. Anche se il soggetto è serio, profondo, bisogna interessare lo spettatore e divertirlo nel senso migliore: dal latino, ‘devertere’, cioè fargli cambiare strada per un po’, per due ore portarlo dentro fuori dal suo mondo quotidiano. ‘La vita è bella’ di Roberto Benigni, per esempio: è il soggetto più duro, più doloroso che ci sia. Eppure è un film che riesce anche a farti ridere".

E qual è il segreto della recitazione?

"Non bisogna mai pensare di essere da soli a dire il proprio testo: la magia del cinema accade nel dialogo, nella interazione fra un attore e l’altro. Lo scambio, ecco il segreto della recitazione. Non si recita mai da soli: fare film è un atto di generosità verso i propri colleghi e verso il pubblico".

Quando ha cominciato a recitare?

"A casa. A casa eravamo tutti dei mitomani. Mio padre, per esempio non voleva far sapere che era un edicolante e faceva finta di essere medico; poi fingeva che mia madre non se ne fosse andata via, abbandonando lui, me e mio fratello. Io, quando lavoravo all’edicola di mio padre, per ogni cliente interpretavo un personaggio diverso: ne arrivava uno e fingevo di essere ubriaco, ne arrivava un altro e zoppicavo… Insomma, ero già un attore, anche se non lo sapevo".