n mediocre razzista". Nel giorno in cui il nome di Zeffirelli è tornato d’attualità per le celebrazioni del centenario, il critico d’arte Tomaso Montanari ha di nuovo voluto far parlare di sé per alcuni giudizi-manganellata sul regista fiorentino. Non una novità. Era già successo anche al tempo della morte di Zeffirelli, che Montanari da Siena si scagliasse con livore contro "Scespirelli", definendolo a camera ardente aperta "un insopportabile mediocre" e prendendosela con chi "si genufletteva in orbace ai suoi piedi".
Ora: non c’è dubbio che sull’opera di Zeffirelli il dibattito sia aperto. Il suo stile, legato al passato ed esposto quasi sempre in chiave barocca, non era fatto per intercettare il consenso di chi voleva l’arte al servizio del popolo o di una parte politica. Però è anche vero che la virulenza con la quale la sinistra anche in vita lo ha osteggiato è sempre stata oltre le righe. Dai giudizi tranchant su tutti i suoi lavori, fino alle spernacchiate pubbliche riservategli alla prima del suo "Il giovane Toscanini" al festival di Venezia. Eppure, proprio mentre quell’Italia lo dileggiava, Zeffirelli era uno dei pochi registi italiani in grado di lavorare con credibilità all’estero. L’unico a trionfare all’Old Vic di Londra; a rivisitare per il teatro l’opera potente di Shaskespeare in una chiave nuova; a stregare il pubblico americano con le sue regie kolossal al Metropolitan.
Tutto ciò non si può ignorare come fosse acqua di ruscello. Ma soprattutto a Firenze non si può dimenticare ciò che lui fece nel 1966, quando chiamò Richard Burton e insieme raccontarono la tragedia dell’Alluvione. Dire che quel documentario salvò Firenze forse è dire troppo, ma di certo se il Mondo accorse in massa ad aiutare la città sommersa dal fango, fu proprio grazie a quella pellicola magistrale che bucò il silenzio steso per insipienza sul dramma. Un gesto d’amore potente da parte di chi si sentiva fiorentino nel midollo. Fosse solo per questo, Zeffirelli merita comunque oggi una misura nelle critiche anche dai fiorentini che non lo apprezzano. Un rispetto intellettuale e soprattutto umano che Firenze, città cinica ma mai cattiva, ha nel suo costume da sempre. Perché il cinismo altro non è che un triste tipo di saggezza. La cattiveria, invece, è solo il biglietto da visita delle persone infelici.