
Giorgio Castelfranco, storico dell’arte ebreo, cacciato dalla Direzione della Galleria di Palazzo Pitti per effetto delle leggi razziali
E’ ovvio che non si comprenderà mai il fenomeno Cézanne partendo, più o meno coscientemente, dall’estetica veristica. Ma ritengo che non lo si vedrà con sufficiente chiarezza nemmeno imputandosi in un’estetica che considera l’opera d’arte come creazione autogena, puro stile, senza rapporti colle cose, cioè senza rapporti colla percezione del mondo. Chè allora la ricaccerà in noi, invece di lasciar la affiorare ed esaminarla, l’impressione indubbia di eccezionalità che ci dà l’arte di Cézanne. E finiremo, storicisticamente, col definir quest’arte o primitiva, il che vuol dire ben poco, o restaurazione del volume dopo illuminismo impressionistico, il che vuol dire ancor meno. Perchè l’impressioni- smo nel periodo migliore e che più conta, dal 70 all’80, era giunto a una sana visione del mondo come unità concreta e palpitante di forme e possedeva tutto un suo senso dello spazio perfettamente lirico e attuale; e sareb e un pessimo complimento per Céanne attribuirgli d’aver bloccato questo palpitare impressionista negli schemi della geometria pittorica comune e accademica. E inutile insomma parlare dei volumi di Cézanne, se in qualche modo non si definiscono nella loro realtà lirica. E oltre a ciò non si spiegherebbe come mai Cézanne sia ri masto fedele tutta la vita a elementi importantissimi assimilati in gioventù dalla pittura dei compagni impressionisti: quali la sua tavolozza, che sostanzialmente la tavolozza impressionista, la sua abbreviatura, che, nonostante tutte le differenze, deriva chiaramente dall’abbreviatura di Manet e, spesso, l’impressionistica divi- sione del tono. Ripeto, bisogna lasciar affiorare il senso di stranezza che ci dà la pittura di Cézanne. Esso ci urterà più o meno secondo l’elasticità del nostro gasto pittorico, si attenuerà e dilaterà, mi auguro, nella gioia che ci darà la bellezza dell’opera; ma appena ricreatoci fuori di essa un punto di riferimento nella nostra personale osservazione delle cose, riapparirà spon taneamente.
In Cézanne è qualcosa di istituzionalmente diverso da noi, un metro di visione tutto suo, che possiamno seguir quadro per quadro, ma non possiamo far nostro. Egli sente diversamente i volumi da come noi generalmente li sentiamo. E’ inutile domandarci ove nasca questa sua disposizione, se nei suoi nervi o nel suo spirito; quel che ci appare è un processo orientato, sì, liricamente, ma che coinvolge tutta la sua vita, dal primo urto con le cose, via via, attraverso il suo costante temperamento elastico, sino all’organizzazione e ma- terializzazione dell’immagine. Che egli fissi l’occhio su una tavola con pochi oggetti e poche frutta preparate per la natura morta, ed ecco le pieghe della tovaglia gli appariranno golfi d’ombra fra onde pietrificate, lo stacco del piatto sul piano di posa profondo, come sondato da una mano che voglia faticosamente incatrarvisi, il cavo della fruttiera enorme. Un muro in un interno (uno dei soliti poveri muri lisci di case di campagna) gli si imporrà come la sostanza più corposa e complessiva che sia dato pensare, quasi resistente all’occhio nelle sue stratificazioni misteriose. In una figura egli sentirà una mole complessissima e pur scandita, blocco su blocco: modellare un volto era per lui come sentire nella sua forma geografica una montagna. Un campo in declivio gli si scaglionava in ripiani, in rughe, in anfrattuosità incredibili e terribili, come i 30 metri davan- ti alla trincea al fante in una giornata di battaglia. Per ciò egli semplificava spietatamente la forma: la semplificava per renderla netta, palpabile, solida, resistente al suo sguardo. Eppure pochi uomini devono aver amato come lui le cose nella loro vita e per la loro vita: gli alberi che agitano le loro fronde al vento, il sole ed il vento sulla campagna, i suoi compaesani dal volto severo e dolce, dal corpo robusto e affaticato. Perchè rimanere a Parigi cogli impressionisti? Il suo demone era di lui solo ed era preferibile la solitudine della Provenza. E di là ogni tanto ripensava ai grandi maestri passati: non era riuscito a imparare il loro disegno, come non aveva potuto apprendere quello del mezzo Ottocento francese (e come avrebbe potuto impararlo?).