
La foto dell’équipe al lavoro nel reparto Covid di Medicina 1 all’ultimo giorno
Firenze, 4 giugno 2020 - «Non voglio contraddire il presidente della Repubblica, ma più che eroi credo che siamo persone che hanno fatto al meglio il proprio lavoro". Carlo Nozzoli, alla guida del dipartimento Dea di Careggi (con le chirurgie d’urgenza, le malattie infettive, i reparti di medicina e il pronto soccorso), cammina sul filo degli oltre tre mesi di emergenza che hanno ribaltato l’organizzazione, le prospettive, le certezze acquisite del policlinico, punto di riferimento per i casi più gravi di una malattia che ha sconvolto il mondo. Nudi davanti al Covid, donne e uomini nuovi, professionisti senz’armi adeguate per combattere una guerra anomala. Fragili e fortissimi di uno "spirito di squadra ritrovato, che ci ha visti tutti presenti e coinvolti, senza mai tirarsi indietro, con l’entusiasmo e i timori di affrontare una cosa nuova e grande. Un ospedale intero a combattere, tutti dalla stessa parte: con una grande solidarietà fra i professionisti dei reparti, quelli in prima linea e quelli che comunque hanno partecipato sentendosi parte del sistema", racconta Nozzoli. Giorni in corsia a provare a cancellare la morte, il dolore vivo negli occhi dei malati, la disperazione dei parenti, la paura di tornare a casa e infettare gli affetti. La solitudine delle notti con gli occhi sbarrati a scacciare i cattivi pensieri e a compulsare ogni straccio di letteratura medica, ancora troppo giovane, che consentisse di aprire una strada, un varco di luce nel buio delle terapie: "Ogni paziente con un quadro clinico diverso, con farmaci che funzionavano su alcuni e si rivelavano un fallimento per tanti altri". Altre notti svenuti sul letto, tramortiti da una stanchezza accumulata nelle giornate di lavoro più lunghe della vita professionale. "Quante volte ho pianto, pensando che tutto non era mai abbastanza, che noi, bardati come palombari, potessimo non riuscire a dimostrare la vicinanza necessaria ai malati", ha l’emozione di quei giorni ancora addosso, Marta Tilli, specializzanda del primo anno in malattie infettive che, a 28 anni, è stata catapultata dai libri in corsia, non per atto coercitivo dei superiori, ma per una chiamata alle armi che si è fatta strada da sola. C’era bisogno di tutti, anche i più giovani lo hanno capito e non si sono tirati indietro. Non hanno tradito il giuramento di Ippocrate ma hanno dato un colpo d’ascia a quel comune e superficiale sentire che i nuovi medici non si impegnano abbastanza. "In questi tre mesi abbiamo combattuto un po’ una guerra anomala, anche se qui abbiamo vissuto un’esperienza diversa, rispetto soprattutto alla Lombardia, con la situazione sempre sotto controllo, mai sopraffatti in maniera incontenibile – dice Nozzoli – Forse chi parla di eroi lo dice perché rispetto alla norma, anche i sanitari, anche gli addetti alle pulizie, insomma tutti, hanno rischiato la vita e in tanti, troppi, l’hanno persa". Dunque eroi diversi. Nessuno qui in trincea si aspetta un premio, ma il riconoscimento dell’importanza della sanità pubblica e dei professionisti che ci lavorano, quello sì.
E in questo senso sperano che la tragedia del Covid possa essere trasformata in un’opportunità «per saldare quei debiti e quei deficit che ancora ci sono», dice Stefano Grifoni, che dirige il pronto soccorso, la Linea Maginot. In quelle stanze si doveva – e si deve tuttora – agguantare il virus, riconoscerlo nei pazienti per non infettare l’ospedale e curarli prima che le condizioni precipitassero. E dunque l’occasione da non perdere è imparare, migliorare, rafforzare. «Soprattutto la medicina del territorio che deve rispondere ai bisogni delle persone, l’ospedale è un punto di riferimento straordinario, dove si trovano risposte immediate ai bisogni di salute, ma abbiamo imparato che la carenza di servizi sul territorio può determinare disastri e che i modelli sanitari totalmente ospedalocentrici sono ormai superati», conclude Grifoni. A Careggi non sono mai state fatte selezioni tra pazienti. Per il direttore della Terapia intensiva, Adriano Peris, sarebbe stato inaccettabile. «Abbiamo maturato una visione delle terapie intensive in rete, dopo la mia esperienza al coordinamento dell’Area vasta centro – dice peris – Abbiamo cominciato a spostare i pazienti tra le varie aree con la teoria dei vasi comunicanti e questo ha consentito uno scambio e innovazioni che provenivano da altre realtà. E’ ciò che ci ha permesso di non esercitare mai in fase di emergenza alcuna selezione di pazienti né sulla base di età né di malattie pregresse».
«Attualmente sono in cura a Careggi 22 pazienti Covid, di cui 14 ancora ricoverati in terapia intensiva – spiega il direttore sanitario dell’azienda ospedaliero universitaria, Lucia Turco – Da fine febbraio a oggi sono state 501 le persone ricoverate. Complessivamente sono stati dimessi in buone condizioni, 361 pazienti». E ora l’ospedale si è già inoltrato nella complessa riorganizzazione della fase2. Rimane attiva una delle quattro strutture intensive e uno dei 4 reparti ordinari, oltre alle Malattie infettive, che erano già a pieno regime a partire da marzo. «Affrontiamo l’avvio di questa nuova fase – prosegue Turco – con risultati incoraggianti, ma senza abbassare la guardia. Chi ha visto il virus da vicino non può ancora voltare pagina, bisogna mantenere la necessaria attenzione». Quando anche l’ultimo paziente ricoverato nel reparto Covid potrà essere trasferito, si sta pensando alla soluzione più efficace per isolare i pazienti positivi, oltre al Covid center «un padiglione dedicato al coronavirus, pronto per aprire in caso di necessità», dice il direttore generale, Rocco Damone.