Firenze, 25 settembre 2024 - Soak-stain. Tradotto letteralmente significa imbibizione a macchia, e probabilmente non dirà niente ai non addetti ai lavori, eppure è la tecnica pittorica che ha segnato indelebilmente l'evoluzione del rapporto artistico tra colore, spazio e forma nel secondo Novecento. Pioniera della sua applicazione fu la madrina dei Color Field Painters, Helen Frankenthaler, che stendeva la vernice con pennelli e spugne, oppure direttamente dai secchi, su grandi tele distese orizzontalmente, lasciando che si espandesse e mescolasse naturalmente, allo scopo di creare l'effetto acquerello su larga scala e con colori ad olio.
La sua capacità unica di sfidare le convenzioni combinando astrazione e poesia, tecnica e improvvisazione in nome di una visione audace e intuitiva delle forme espressive non poteva passare inosservata agli occhi del grande critico Clement Greenberg, che la introdusse sulla scena artistica newyorchese. La sua influenza e amicizia con celebri personalità del periodo come Robert Motherwell - che fu anche suo marito dal 1958 al 1971 - Jackson Pollock, Mark Rothko, Morris Louis, David Smith, Kenneth Noland, Anthony Caro e Anne Truitt viene raccontata dal percorso inedito curato dal direttore dell'Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné Douglas Dreishpoon per la Fondazione Palazzo Strozzi e l'Helen Frankenthaler Foundation.
L'esposizione - in programma da venerdì 27 al 26 gennaio 2024 - è la più complessa e completa rassegna mai realizzata nel nostro paese sulla sua opera, con prestiti provenienti da musei e collezioni internazionali come il Metropolitan Museum of Art di New York, la Tate Modern di Londra, il Buffalo AKG Art Museum, la National Gallery of Art di Washington, la ASOM Collection e la Collezione Levett. Il filtro dell'affinità è la strada per ricostruire l'ecosistema di forze creative che condividevano con lei il forte impegno nella sperimentazione, e di cui conservava le opere nella casa di Manhattan: dal lavoro su carta "Helen's Collage" (1957) di Robert Motherwell al dipinto "Aleph Series V" (1960) di Morris Louis fino alla scultura "Ascending the stairs" (1979 - 1983) di Anthony Caro.
Un arco temporale ampio, che abbraccia la sua produzione dal 1953 al 2002, costantemente in dialogo con le opere di altri artisti a lei collegati per sinergie e visioni comuni: dalla consolidata influenza di Jackson Pollock negli anni Cinquanta, rintracciabile in dipinti come "Mediterranean Thoughts" e "Moveable Blu", "Fiesta" e "Untitled", ispirati dal bianco e nero di "Number 14", che colpì i suoi occhi durante una visita alla Betty Parsons Gallery; alle nuvole colorate fluttuanti di "Tutti Frutti", negli anni Sessanta, accostate all'energia straripante della scultura in acciaio dipinto di David Smith, "Untitled". Fino alle evoluzioni degli anni Ottanta e Novanta, quando l'artista scopre un mondo tonale di veli diafani e fondi colorati, sfumature delicate e trasparenze, espresse in opere come "Cathedral" e "Eastern Light", "Madrid" e "Star Gazing", che preludono alla luce precaria e crepuscolare degli ultimi "Driving East" e "Southern Exposure", simbolo della fugacità del tempo.