Il blocco di Suez e la ricerca dei container. "Meno male che noi usiamo di più l’aereo"

Empolese Valdelsa, i dolori dell’export di moda alle prese con i ‘contenitori’ che non si trovano e il Canale intasato secondo Brotini della Pakerson

La Ever Given

La Ever Given

Empolese Valdelsa, 31 marzo 2021 - Il ‘tappo’ del Canale di Suez, un mostro dei mari da 400 metri, una larghezza di 59 metri e una stazza lorda di 224.000 tonnellate che risponde al nome di Ever Given, è stato rimosso dall’arteria del commercio mondiale per nave che ha fatto impazzire il costo del petrolio (visto il numero di petroliere in attesa di entrare nel passaggio tra il Mar Rosso e il Mediterraneo), tanto per citare la conseguenza più rilevante sull’economia mondiale. Senza dimenticare le ripercussioni su tanti altri prodotti, da quelli tecnologici (in arrivo dall’Estremo Oriente) fino ad arrivare all’export di moda.

E meno male che la cosa si è risolta in un pugno di giorni, perché altrimenti il blocco avrebbe avuto conseguenze anche sulle esportazioni delle imprese di abbigliamento dell’Empolese.

Senza contare che i nostri industriali devono confrontarsi con la penuria di container. Sì, perché il meccanismo dei trasporti internazionali regge se non viene bloccato da un qualche accidente. In questi tempi di pandemia il sassolino ha il nome di conseguenze sulle attività produttive. I container si usano per portare le merci da qualche parte, ma se, una volta arrivati a destinazione, non vengono riempiti con altre merci, non è molto conveniente farli ripartire vuoti, con un costo secco a carico del gestore, o proprietario.

Una realtà che conoscono benissimo i camionisti,che vedono come il fumo negli occhi l’ipotesi di ripartire, dopo aver trasportato merci, con il cassone vuoto, perché significa lavorare in perdita. Senza contare che la ripresa economica è disallineata proprio a causa del virus. I Paesi che hanno superato la fase acuta, come la Cina, con gli Stati Uniti che si stanno avvicinando all’obiettivo, macinano risultati e hanno bisogno di container, che però poi possono restare, vuoti, sulle banchine dei porti di mezzo mondo.

«E allora – come ricorda l’amministratore delegato del calzaturificio Pakerson di Cerreto Guidi, Gabriele Brotini – i ‘contenitori’ non si trovano, mentre i noli marittimi, i costi del trasporto per mare, sono esplosi in seguito alla ripresa che si è avuta in alcune parti del mondo. Certo, per la nostra azienda i container non sono il ‘mezzo’ che usiamo di preferenza: per noi conta di più l’aereo. Però alcune volte all’anno ci serviamo del trasporto via nave, con i container appunto".Il ricorso prioritario all’aereo si spiega con il tipo di prodotto dell’azienda cerretese, di livello medio-alto e spesso alto.

«I motivi delle nostre esigenze sono facilmente comprensibili – riprende Brotini – se si guarda alla caratteristica principale della moda che tutti i colleghi industriali conoscono benissimo: la fretta. Gli ordini sono sempre a stretto, spesso strettissimo, giro di tempo. E allora l’aereo diventa una scelta obbligata. Tanto più che, per prodotti di qualità, pochi euro per paio di scarpe via aria non incidono più di tanto. Altro discorso per calzature di qualità meno elevata, per cui la metà del costo di trasporto aereo, quello per mare, può essere un’opportunità interessante, visto che i volumi di merce sono molto più alti di quelle di qualità. E infatti i cinesi sono clienti importanti delle compagnie di navigazione. La diversità la fa il tempo: con l’aereo in una settimana i prodotti arrivano e vengono sdoganati, con una nave porta-container i tempi raddoppiano".

Tra i clienti importanti del trasporto marittimo ci sono anche le imprese che lavorano la pelle. Una parte del pellame (il problema non riguarda tutti), arriva infatti da Paesi come l’India o il Pakistan. Magari si tratta di merce non di qualità altissima, ma che viene ordinata in quantità elevate, su cui il costo del trasporto aereo avrrebbe un’incidenza pesante, che correrebbe il rischio di creare problemi per il costo finale del capo d’abbigliamento. A questo proposito, basti pensare che una ventina d’anni fa negli Usa fu chiusa l’ultima conceria industriale attiva. E non è che negli Stati Uniti gli articoli in pelle non siano prodotti: la materia prima arriva da altri Paesi.