di Bruno Berti
EMPOLI
Mentre nel settore della moda infuria la tempesta dovuta al massiccio ricorso alla cassa integrazione a causa di un mercato carente di vitalità, effetto di incertezza economica, il comparto della manodopera di riserva (per così dire), quella cinese, sta vivendo uno tsunami particolare che ha alla base, come dimostrato da un’inchiesta della Guardia di Finanza a Firenze ed Empoli, la volontà di scansare il pagamento delle tasse. E allora, mentre le griffe chiedono ai loro fornitori una qualità maggiore dei capi che significa, stando a fonti imprenditoriali, costi di realizzazione più salati, circa il doppio, l’inchiesta di cui sopra cambia l’andazzo precedente, all’insegna del mettersi in regola, a partire dal Durc, la certificazione della regolarità dei pagamenti dei contributi previdenziali. Anche perché in gioco non ci sono solo gli imprenditori orientali, ma anche il buon nome dei marchi, per i quali la reputazione è una condizione che può fare la differenza tra successo e il baratro dell’irrilevanza economica. Tanto che le grandi firme chiedono a chi lavora per loro di avere la produzione dei capi all’interno. Per questo, in mancanza di manodopera sul mercato, le imprese in qualche caso si rivolgono alla manodopera cinese assumendola direttamente.
Come si sa, infatti, le ragazze empolesi e della zona hanno già superato, nella maggioranza, l’esigenza di prendere in considerazione quell’attività che aveva permesso alle loro nonne, e a qualche mamma, di assumere un ruolo sociale ben definito diventando confezioniste. Un lavoro, certo duro, che cambiò la vita a un paio di generazioni di donne. Facendo anche la fortuna della città e di tutta la zona. Tornando al quadro d’insieme, i fornitori, a tutti i livelli, devono avere il Durc. E per i titolari cinesi significa che il mondo cambia. Fonti imprenditoriali dicono di aver sentito di imprese con titolare orientale dove i contributi si versavano, ad esempio, per 4 ore, mentre il resto era retribuito in nero, e magari non per intero. Senza contare che l’orario di lavoro per molti anni, in quelle imprese, è stato ben superiore alle otto ore, con il concetto di straordinario spesso sconosciuto. E poi era noto da anni che le imprese orientali facevano conto sui tempi morti nei controlli. Nelle aziende le agenzie pubbliche di qualsiasi tipo, a meno di casi strani, non si presentavano in sede prima di due anni, talora anche tre, dall’inizio dell’attività. Per questo le imprese cinesi, in media, avevano una durata della vita aziendale piuttosto corta, cosicché fosse molto difficile risalire alla precedente gestione una volta che il controllore di turno si fosse presentato nella sede segnalata per scoprire di trovarsi di fronte a un’altra società. Certo, le tracce, come in ogni giallo che si rispetti si possono sempre trovare, ad esempio se gli operai sono gli stessi, o se il pagamento effettuato dai clienti è sempre per lo stesso Iban bancario dell’azienda che occupava precedentemente la sede. Ma, restando all’immagine presa dal mondo dei gialli, l’elemento importante è sempre quello del numero e del carico di lavoro degli investigatori, nel caso i controllori. Adesso nella galassia della manodopera di riserva della moda, da noi circa un migliaio di persone arrivate dalla Cina, tira un’aria diversa. Se da un po’ di tempo a questa parte le ore di lavoro sono diventate più simili a quelli dei colleghi italiani, ci sono più esigenze di mettersi in regola, e questo significa aumento dei costi: una condizione che in tempi di crisi non aiuta. Senza contare che, nel caso delle imprese cinesi, i figli dei titolari spesso fanno altro, come gestire ristoranti o bar, e non mancano, poi, quelli che di fronte alla crisi, avendo accumulato un gruzzolo, tornano a casa.