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Morto Gianni Berengo Gardin, gigante della fotografia: dal reportage sui manicomi alle grandi navi a Venezia

Aveva 94 anni. Nato a Santa Margherita Ligure, considerava Venezia la sua vera città natale. Con oltre due milioni di negativi e oltre 360 mostre personali, è stato un osservatore instancabile dell'Italia che cambia. Diceva: “Photoshop? Lo abolirei per legge”

Gianni Berengo Gardin in una foto del 2017 (Ansa)

Gianni Berengo Gardin in una foto del 2017 (Ansa)

Roma, 7 agosto 2025 – I suoi scatti aprirono uno squarcio sui manicomi italiani 10 anni prima della legge Basaglia. Il suo obiettivo era l’uomo, colto nell’intimità e nella verità della sofferenza. Con Gianni Berengo Gardin, morto oggi a 94 anni nella sua Genova, se ne va una colonna della fotografia italiana del Novecento. Ligure di nascita (di Santa Margherita) e veneziano di adozione, in Laguna aveva studiato e mosso i primi passi da fotografo, tanto da considerarla la sua culla. 

Con oltre due milioni di negativi, più di 260 libri pubblicati, oltre 360 mostre personali in tutto il mondo e una carriera consacrata da premi internazionali, è stato molto più di un fotografo: è stato un testimone etico, un poeta della realtà, un osservatore discreto ma instancabile dell'Italia che cambia. Con il suo sguardo Gardin ha attraversato sette decenni di storia, fissando nel bianco e nero la memoria visiva del Paese.  Gardin era un purista: “Non c’è alcun artificio nelle fotografie che ho realizzato, nessun utilizzo di Photoshop… se potessi lo farei abolire per legge”, diceva a proposito del reportage sulle navi da crociera a Venezia. 

Artigiano, non artista

Berengo Gardin amava definirsi "un artigiano", e non un artista. Detestava l'idea di fotografia come forma d'arte estetizzante, preferendo sempre l'impegno civile alla ricerca di uno stile personale: "Il mio lavoro non è artistico, ma sociale e civile. Non voglio interpretare, voglio raccontare". Il suo sguardo si è sempre posato sull'uomo: nei suoi gesti quotidiani, nel lavoro, nei momenti di intimità e nei luoghi del disagio.

Dall'Italia contadina del dopoguerra agli slanci della modernizzazione, dalla vita degli zingari all'universo industriale, dalle periferie urbane ai manicomi, campo, quest'ultimo, in cui firmò il reportage più potente della sua carriera.

Il grido sui manicomi

Nel 1969, insieme a Carla Cerati e sotto la guida di Franco Basaglia, realizza ‘Morire di classe’ (Einaudi), un libro che svela per la prima volta le condizioni disumane dei manicomi italiani. È un grido muto, fatto di immagini nette e crudeli, che scuote il Paese e contribuisce alla battaglia culturale che porterà, nel 1978, alla Legge Basaglia. "Fotografavamo solo con il consenso dei malati - raccontava - Ma non volevamo mostrare la malattia, bensì la condizione". Era la cifra del suo lavoro: non lo choc, ma la consapevolezza.

Il reportage sulle grandi navi a Venezia

Dopo aver vissuto a Venezia, Roma, Lugano, Parigi e infine Milano, dove si stabilisce nel 1965, Berengo Gardin avvia una lunga carriera da professionista del reportage, che lo porterà a collaborare con le più importanti testate italiane e internazionali, tra cui ‘Domus’, ‘L'Espresso’, ‘Time’, ‘Stern’ e ‘Le Figaro’, ma soprattutto a dedicarsi alla forma che più amava: il libro fotografico. 

Tra gli ultimi indimenticabili lavori, l’imponente reportage sul passaggio delle Grandi Navi da crociera a Venezia, esposto con il supporto del Fai a Milano nel 2014 e a Venezia nel 2015. “Non potevo rimanere indifferente alla minaccia delle mastodontiche navi da crociera che ogni giorno attraversano il Canale della Giudecca – raccontò in quell’occasione – . La prima volta che le ho viste sono rimasto scioccato e non solo dalle dimensioni. Così, lo stupore si è trasformato in una reazione di sdegno e di incredulità”.

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