Ahi Firenze, ti trovo cambiata. Anche troppo

La lettera dello scrittore Maurizio Maggiani a La Nazione dopo un soggiorno in città: «Ormai si paga anche per pregare...»

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani

Firenze, 7 dicembre 2019 - Pubblichiamo la lettera che lo scrittore Maurizio Maggiani ha inviato al quotidiano La Nazione dopo un soggiorno a Firenze, in cui racconta quanto è cambiata negli ultimi anni la città.

Gentile direttrice, sono tornato dopo molto, troppo tempo a Firenze, purtroppo per un solo giorno e per non rilassanti ragioni di lavoro. Ho voluto un gran bene a questa città dove ho vissuto e lavorato e amato nell’età della mia giovinezza; per capire di che giovinezza parlo dirò che il vinaio sotto casa mi dava un ovo sodo, un bicchiere di morellino e un crostino per centocinquanta lire. E alla città sono grato per avermi offerto, a me paesano di val di Magra, generose opportunità di cultura, di politica, di socialità, e di familiarità con il bello, ovviamente.

Credo che adesso sia proibito, ma allora, credetemi, anche solo starmene seduto sui gradini di Santa Maria del Fiore a prendere il sole, mi faceva sentire parte di qualcosa di incommensurabile, assieme severa gentilezza celeste e ineffabile bellezza dell’opera umana. La città era pervasa dalla sua indole mercantile, erano gli anni dei suoi ultimi spasimi industriali, ricordo le disperate lotte dei lavoratori della Galilei, ma non per questo si risolveva necessariamente in pratica rapinatoria; si poteva vivere con dignità e usufruire delle sue opportunità anche da semplici lavoratori.

Il panino con il lampredotto era un bene calmierato, forse anche perché ancora ignoto o non grato al palato turistico, al cinema Alfieri si potevan godere di due film, uno di gran pregio, l’altro più leggero, al prezzo di uno; l’offerta di musica e teatro era magnifica e abbordabile.

Ma bando alla nostalgia; la vita mi ha portato lontano, nel corso dei decenni sono tornato assai raramente a Firenze e solo per occasioni professionali, da brevi sguardi mi era evidente che la città fosse cambiata e, naturalmente, aveva ben tutto il diritto di farlo. Salvo calcare un po’ troppo la mano e rendermela antipatica, sensazione quanto mai sgradevole. Per spiegare la sgradevolezza, vi voglio raccontare come ho dormito l’altra notte e come mi sono svegliato. La benemerita istituzione che mi ha ospitato ha voluto farlo signorilmente e ha prenotato per me e mia moglie una stanza in un hotel quattro stelle nientemeno che in piazza Santa Maria Novella.

So cos’è uno standard quattro stelle come so cos’è una topaia, ho dormito ovunque nel mondo. La stanza non aveva accesso con ascensore ma per via di una ripida scala, al mezzo della rampa un trave a soffitto era abbastanza basso perché un umano di altezza superiore ai 170 centimetri potesse batterci la testa; non essendoci alcun avviso di pericolo, la cosa accade di norma sulle navi militari, ci ho personalmente battuto la capoccia due volte.

La superficie metrica della stanza era intorno ai 2,30 X 3,40, equivalente alla superficie di una cella di isolamento di un carcere di media sicurezza. Il letto aveva uno dei due materassi con le molle sfondate, ragion per cui io e mia moglie abbiamo dormito a turno nell’accettabile dei due.

La stanza era stata di recente ridipinta, ma solo in parte, comicamente risaltavano le pennellate lasciate a metà qua e là sulle pareti. Piccoli antipatici particolari, il rubinetto dell’acqua fredda era spanato, il bollitore per il tè di cortesia non aveva accesso a una presa di corrente, a meno di ficcarsi sotto il piano scrittoio e cercare di arrivare a una presa ad altro destinata. Mi sono svegliato di buon mattino, e per consentire a mia moglie un po’ di sonno nel materasso giusto, sono sceso in piazza.

La piazza è stupenda come sempre, l’edicolante è serrato fin dopo le 9, trovando evidentemente privo di fascino commerciale vendere giornali freschi di stampa ai lettori mattinieri, così ho pensato di riparare lo spirito e le intirizzite membra nella chiesa, nella metafisica bellezza di Santa Maria Novella.

E ho scoperto che per andare a meditare e magari anche pregare era necessario pagare un non modesto ingresso, e mi è tornato alla mente il XIX canto dell’inferno dell’Alighieri, autore che a suo tempo ha avuto qualcosa da ridire alla città: ahi Bonifax, pagare per pregare è un cincino simoniaco. Ho trovato un’edicola attrezzata per la vendita di quotidiani del mattino in Piazza della Repubblica; gran sollievo, lievemente turbato nel notare che la piazza è oggetto di una rivisitazione architettonica con l’allestimento di interessanti baraccamenti che danno un tocco di eccitante laminato post moderno alla compassata persistenza di antiquati caffè, un qual sentore di favela messicana che ha il pregio di moltiplicare i posti a sedere e immagino anche i fatturati.

Se posso dirlo, mi pare di aver colto nell’aria della città delle meraviglie dello spirito una sottile voglia di buona, vecchia, materialistica economia di rapina. Ma chi son io? Solo uno scorbutico tra i molti milioni di soddisfattissimi visitatori, uno che non fa né testo né economia. Grazie per l’ospitalità. © RIPRODUZIONE RISERVATA