
Cosimo Ceccuti
Firenze, 2 dicembre 2020 - Ogni anno, nell’anniversario della nascita di Carlo Lorenzini avvenuta a Firenze il 24 novembre 1826, l’Associazione culturale “Pinocchio di Carlo Lorenzini”, presieduta da Anna Iacobacci, conferisce il Premio omonimo a personalità illustri che si sono distinte in vari settori, ciascuno identificato con un personaggio della fiaba “Le Avventure di Pinocchio”. Quest’anno, a causa delle normative anti-Covid del Dpcm governativo, alle celebrazioni in presenza si è dovuto preferire un appuntamento virtuale cui hanno preso parte i soci: l’intervista al Professor Cosimo Ceccuti, storico del Risorgimento e presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia, che ha approfondito il contesto storico-politico dell’epoca e i tratti salienti della biografia di Collodi.
Professor Ceccuti, quello che è meno noto di Carlo Lorenzini è la sua intensa attività giornalistica. È stata una penna pungente, ironica, sarcastica ma incredibilmente attuale. Conosciamolo meglio da questo punto di vista...
“Quello del giornalismo è un aspetto importante per Lorenzini. A mio avviso non si può capire Pinocchio, in genere non si può capire nessuna opera di un grande scrittore, se non è collegato con la sua vita. Certamente nelle varie anime che aveva Lorenzini, quella del giornalista gli piaceva moltissimo. “La Lente”, lo “Scaramuccia”, soprattutto “Il Lampione” erano giornali popolari, dai quali emergeva quella vena naturale di voler stare vicino alla gente e la carica satirica, ironica che Lorenzini riservava al potere politico, che normalmente andava sempre stigmatizzando. Poi arriva “La Nazione”, nel 1859- 60, dopo il ritorno dalla seconda guerra d’indipendenza. Dà vita al Lampione, che è un giornale di una modernità eccezionale, due volte: la prima, nel ‘48-’49, insieme a grandi scrittori ma anche caricaturisti; dobbiamo pensare che il tasso di analfabetismo era elevatissimo e non esisteva libertà di stampa. Il Lampione esce in occasione della guerra d’indipendenza, quando, dopo il 1847 con le riforme, in tutta Italia si allenta la morsa della censura sulla carta stampata. E allora ecco che Lorenzini dà vita a questo giornale satirico e ironico che parla dei problemi della gente, come del resto Collodi farà per tutta la vita, anche in Pinocchio, ma sempre con il sorriso sulle labbra, mai eccessivamente drammatico. E quel giornale avrà delle caricature straordinarie del suo collaboratore e amico Adolfo Matarelli, che riprendono poi dieci anni dopo nel ’59, quando ridà vita al giornale, in una Firenze oramai diversa che anela all’unità nazionale e non accetta gli accordi di Villafranca che vorrebbero riportare il Granduca in Toscana, dopo l’insurrezione pacifica del 27 aprile che l’aveva allontanato per sempre. Riprende dunque il Lampione in una situazione diversa, ma sempre con lo sguardo rivolto ai vari problemi economici, culturali, sociali, che la società presenta. Lorenzini sarà sempre giornalista e scrittore, e noi lo sappiamo perché Pinocchio si legge oggi esattamente come si leggeva quando è stato scritto nel 1881. Un grande scrittore e giornalista, tanto che il Ministro della Pubblica Istruzione Broglio, nel 1868, lo inserisce nel ristretto novero dei collaboratori di Alessandro Manzoni per preparare il dizionario della lingua italiana. E credo che sia stato un giusto riconoscimento perchè, insieme alle capacità di farsi intendere dalla gente e di cogliere la realtà che lo circondava, Lorenzini aveva anche una grande padronanza della bellissima lingua italiana”.
Scriveva Lorenzini “Io non sono mai stato ministro e probabilmente non lo sarò mai. Non dico questo per vantarmene, perchè è una di quelle disgrazie che oggi può accadere a tutti: anche agli analfabeti”. “Dopo che un povero diavolo ha sudato, brigato, armeggiato e (qualche volta) speso tanto per farsi eleggere e uscir vittorioso dall’urna, non ci mancherebbe altro che dovesse sobbarcarsi, per giunta, anche la seccatura di partecipare alle discussioni dell’Assemblea (sta parlando dell’assenteismo parlamentare). Serafica ingenuità dei nostri presidenti d’Assemblea, i quali si ostinano a credere in buona fede di poter intimorire i deputati assenti o renitenti all’appello colla minaccia melo- mimo- comico- giocosa di far pubblicare i loro nomi sulla Gazzetta Ufficiale”. Per quanto sono attuali, potremmo ritagliare queste dichiarazioni e incollarle sui giornali di oggi. Professore, in mezzo alle tantissime notizie di attualità di cui adesso siamo sommersi, a quale Carlo Lorenzini non avrebbe potuto astenersi dal commentare con la sua penna ironica e sarcastica?
“Lo ha dimostrato nel corso della sua vita, il difficile rapporto che ha avuto col potere politico. In gioventù era stato educato in seminario, la madre era cattolicissima e l’aveva mandato lì con la speranza che intraprendesse la carriera ecclesiastica, cosa che non sarà. Esce, s’impiega alla libreria Paggi e lì conosce un mondo di scrittori fiorentini di altissimo livello, fra cui uno che gli resterà sempre fedele: Gianbattista Niccolini. Un grande personaggio la cui figura è ricordata nel teatro fiorentino a lui intitolato. Niccolini colpiva l’arroganza del potere politico, era un grande scrittore di tragedie: sua l’opera l’Arnaldo da Brescia nel ’43, proibitissima perché esaltava un monaco bresciano che era stato messo al rogo e bruciato per aver osato attaccare il potere e la corruzione del papato e dell’impero. Questa educazione che gli deriva dal Niccolini, Lorenzini la terrà sempre con sé. Inoltre aveva uno spirito liberale, uno spirito democratico, tanto che si avvicina a Mazzini e al Mazzinianesimo nel primo periodo della sua vita. Lorenzini è stato patriota ardente per la libertà, combatte a Curtatone e Montanara, combatte con i giovani toscani nel battaglione dei volontari. Tornerà poi a Firenze, riprenderà le sue attività, nel ‘59 tornerà a combattere nelle file dell’esercito, tutto per gli ideali - non erano previsti compensi- di fare l’Italia unita. E il potere come risponde? In modo completamente distaccato dai bisogni della gente: per questo lui colpirà il potere, in chiave ironica, per tutta la sua carriera di scrittore e giornalista. E l’ironia, con le sue sottigliezze, talvolta è più pericolosa, più dannosa per il potere politico, che non un attacco diretto. Ci sono personaggi integerrimi, come Ricasoli, che fanno parte del suo panorama, a cui si legherà profondamente, ma per il resto richiamerà la delusione della classe politica nei confronti dei bisogni della gente. È questo il filo rosso che gli segnerà anche la vita: ricordiamoci che questo giornalista scrittore, questo patriota, rimarrà profondamente deluso dall’unità d’Italia per cui lui si è battuto. Tanti giovani si erano sacrificati senza nulla chiedere, se non un Paese più giusto, un Paese migliore. Ma Lorenzini vede la vecchia destra e l’avvento della sinistra, e li trova assolutamente deludenti nei confronti dei bisogni della gente. L’ha ricordato nel discorso sopra citato della ‘disgrazia di fare il ministro’, perché in realtà i ministri, i parlamentari, il diritto di voto era ristrettissimo. In parlamento non c’era una classe dirigente di destra o di sinistra che venisse dalla gente, che conoscesse i problemi della gente: erano aristocratici, comunque perrsone benestanti, che non conoscevano i drammi della vita. Nei suoi giornali, anche sulla Nazione, Collodi li attacca di punta negli anni ’70-’80, ed emerge tutta la sua delusione verso le classi dirigenti, sia di destra che di sinistra. Nella sinistra aveva avuto un po’ più speranza, perché più avanzata, più progressista, più democratica. Ma viene deluso profondamente con le imposte sul macinato, le vessazioni delle tasse, con la non soluzione dei problemi. Tanto che nel ‘76 scrive una lettera tremenda al ministro Coppino in merito alla questione dell’istruzione obbligatoria: “Caro Ministro -sccrive in sostanza-, ma cosa vuole che ce ne importi di mandare i ragazzi a scuola, se questi non hanno neanche un tozzo di pane da mangiare? Allora prima gli diamo da mangiare e poi gli diamo la cultura”. I suoi attacchi furono così violenti che venne richiamato. Infatti in quel momento Lorenzini era un funzionario di prefettura, aveva accettato, siccome era senza un quattrino, il lavoro offertogli da Battino Ricasoli, dal quale guadagnava poco ma guadagnava, per andarselo poi a bere in via Cavour, al Caffè dei Macchiaioli. Viene richiamato dal Ministro dell’Interno e gli dicono: non puoi mangiare nel piatto dello Stato, fare il pubblico dipendente e poi sparare su di noi perché non rispondiamo alle attese dei giovani del Risorgimento che hanno fatto l’unità nazionale. Questo punto non è secondario, perché è da qui che arriva la spinta per Lorenzini a cercare un ambito diverso, in cui possa fustigare la società e la classe politica senza bisogno dell'attacco frontale, che evidetemente non poteva sostenere. Il mondo delle fiabe, il mondo dei ragazzi, il mondo dei giovani, un mondo puro ma nel quale si possono collocare le diseguaglianze e denunciarle: sarà un mondo che lo attirerà sempre di più”.
Focalizzando sul discorso della forte sensibilità che Carlo Lorenzini aveva verso il popolo e la gente umile, possiamo finalmente approdare al suo capolavoro ‘Le avventure di Pinocchio’, perché anche in quest’opera è particolarmente forte il sentimento che Carlo Lorenzini dedica alla gente comune. Questo libro più di tutte le altre opere vuole essere una voce per gli umili? È veramente rivolto soltanto ai bambini? Su cosa si punta l’attenzione?
“Pinocchio certamente è diretto ai bambini, è una delle favole più lette e tradotte nel mondo, quindi la grandezza di Pinocchio è questa. Ma nelle sue intenzioni è diretta anche agli adulti attraverso le avventure del burattino che poi diventa un uomo. È diretta agli adulti perché in fondo la morale di Pinocchio qual è? La morale è quella che voleva la società italiana della seconda metà dell’ottocento, non solo italiana. Era una società basata sul lavoro di tutti, sul ragazzino per bene, sull’uomo che lavora, e questa era un’eredità mazziniana, perché il senso del dovere l’aveva insegnato Mazzini che l’aveva portato ad un punto talmente esasperato che non ammetteva nemmeno lo sciopero. Ma è lì che Mazzini perde la battaglia con i socialisti, per cui tutte le società operaie di mutuo soccorso repubblicane alla fine del secolo diventano socialiste. Questo avviene perchè c’è una visione sacra sul lavoro, e questa c’è anche tutta in Pinocchio. Quand’è che il burattino diventa un bambino per bene? Quando nella società accetta e svolge il suo ruolo, il suo compito. Diciamo, la favola c’è ma c’è anche la società italiana nello sfondo, nell’argomento e nel finale di Pinocchio: tutti devono lavorare. Ricordate quando la Fatina dice: “Ragazzo mio quelli che dicono così (che non vogliono fare né arti né mestieri, insomma la scuola di Lucignolo) finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo per sua regola nasce ricco o povero ed è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare, guai a lasciarsi prendere dall’ozio, l’ozio è una bruttissima malattia, bisogna guarirla subito, fin da ragazzi, sennò quando siamo grandi non si guarisce più”. In questo passo emerge il culto e il mito del lavoro, che poi finisce nella nostra Carta Costituzionale. All’articolo 1 la nostra Repubblica è basata sul lavoro, e quindi i padri costituenti videro nel lavoro quello che in fondo era la morale di Pinocchio ed era la morale anche di Mazzini”.
Perché, nella versione originale, Lorenzini decide di “uccidere” Pinocchio impiccandolo alla quercia?
“La parola ‘uccidere’ è giusta però è grossa. Un grande giornalista deve riprodurre la realtà, la cronaca, e lui fu un grande cronista, ha scritto delle cronache sulla Nazione per esempio in occasione del plebiscito del voto dei fiorentini e dei toscani per l’unione al regno di Sardegna che sono esemplari. Ma aveva anche una grande fantasia, e qui sta la grandezza di Collodi. In lui insieme all’anima del giornalista, dell’uomo basato sulla realtà che guarda le condizioni sociali della gente, che difende gli umili e i deboli, c’è anche una grande fantasia. L’aggrancio tra la prima parte di Pinocchio, quando finisce impiccato alla quercia e la seconda parte, che riprende dopo dei mesi, è un capolavoro: perché non è che il morto viene tirato giù e arriva come una sorta di profeta che lo tocca e lo fa alzare e camminare. No, tutt’altro, non si sa neanche se era davvero morto, tanto che la Fatina chiama i medici, per dire: ma è morto o non è morto? E con ironia tutta collodiana i medici rispondono: “Se respira è vivo, se non respira è morto”. E quell’altro dice: “Certo, se non respira è morto, se respira è vivo”. Poi alla fine lui tossisce e dicono: visto? È guarito perché e vivo. Ma perché lui si era interrotto nella prima parte? Perché lo fa finire tragicamente, comunque penzoloni e dondolante? Per capirlo bisogna guardare alla sua vita. È un’immagine figlia della delusione che aveva per quell’Italia che aveva intorno, così diversa da quella che aveva sognato come giovane patriota, come combattente per l’indipendenza per questo stato unitario. E allora questa sua amarezza lo trasfonde anche nella sua storia. E come mai cambia idea? Non cambia idea. Sappiamo benissimo che Ferdinando Martini dovette insistere per delle settimane e addirittura dei mesi per convincerlo: “Ma come? – gli fa notare - Tutta Italia aspetta il lieto fine. Come si fa a far finire una storia così tragicamente nel momento in cui tutto è bello, quando l’Italia è unita, quando cresciamo nel peso internazionale, quando le classi si evolvono? Gli dice questo, ma come lo convince? Non con la ragione, perché lui rimane amareggiato com’era e quest’amarezza lui se la porta dietro. Lo convince pagandolo profumatamente per le puntate che doveva fare. E Collodi si fa convincere perché aveva bisogno di denaro.
E qui ci sarebbe un altro problema: chi è la Fatina? Ci sono state polemiche violentissime, ricordo quella tra il Cardinale Biffi di Bologna e Giovanni Spadolini. Biffi diceva sulla scia di Bargellini: la Fatina è la Madonna che a un certo punto interviene e prende in mano la situazione. Certo, uno può pensare quello che vuole, ma la Fatina per Collodi è ‘la società’ che vuole che il figlio si redima, che il cattivo diventi buono, che capisca finalmente come ci si comporta. Certo, c’è anche una vena religiosa in tutto questo, perché la Fatina non lo lascia mai andare a fondo – come avviene invece con Lucignolo che si riduce allo stato di asino e poi muore –. E non lo fa andare a fondo perché in fondo vede qualcosa di buono in lui, e questo buono alla fine vien fuori. Alla fine la Fatina ha ragione, Pinocchio diventa finalmente un bravo bambino in quella società che aveva così caratterizzato e dipinto Collodi. Sapete che la madre di Collodi era religiosissima, lui no, era abbastanza laico, amava tanto la madre che la tranquillizzava quando si preoccupava delle sue compagnie, quando sentiva parlare di Mazzini e di Repubblicanesimo. Pensate che in quel momento, siamo negli anni ’70-’80, il Papa aveva scomunicato perfino il Re, si dichiarava prigioniero in Italia, c’era la questione romana e nessuno poteva accettare le idee liberali con cui andava a nozze il nostro Collodi. Per il quale, il fatto che il Papa scomunicasse le idee liberali, erano come gocce d’acqua che gli scivolavano sul vestito. Ma la mamma no, ci soffriva enormemente e quindi lui cercava nelle lettere di rabbonirla. Tornando alla Fatina non può essere stata una donna che gli ha fatto battere il cuore, quando scrive di lei ha 56 anni, è una persona delusa e amareggiata. Non esiste dunque in Pinocchio una Monnalisa da identificare nella realtà”.
L’importanza dei personaggi caricaturali e le macchiette di Carlo Lorenzini in Scaramuccia e Pinocchio: potrebbe esserci un collegamento?
“Pinocchio non nasce all’improvviso. Anche in Minuzzolo e in Giannettino c’è sempre un gioco tra il bambino buono e il bambino scapestrato che viene richiamato, anche se in Pinocchio, il suo capolavoro, cambia totalmente gli ambienti e totalmente la situazione. Dunque, anche le caricature presenti in Scaramuccia sono certamente antesignane di quello che sarà il punto d’arrivo: perché Pinocchio rappresenta il punto d’arrivo di questo grande giornalista scrittore, stigmatizzatore e fustigatore della società del suo tempo. Ma non è stato, come dicevo, un fustigatore amaro, ma sempre col sorriso sulle labbra, e con questo incide ancora di più negli effetti del suo richiamo morale”.
Come mai da ardente patriota del Risorgimento, sostenitore del barone di ferro Bettino Ricasoli, Lorenzini esprimerà una profonda delusione, amarezza, come scritto nel 1871 sulla Nazione, sulla Gazzetta del Popolo e sul Fanfulla?
“Perché questo è il percorso di Lorenzini: lui parte da Mazzini e dal Repubblicanesimo poi nel ‘59 lui capisce, come del resto lo capisce Garibaldi, che l’unità d’Italia non si farà attraverso l’insurrezione del popolo, perché il popolo non è maturo per fare l’insurrezione, e allora l’unica via sarà quella seguita dai moderati di Vittorio Emanuele che può unificare la nazione. E allora si avvicina a Bettino Ricasoli che è leader dei moderati in Toscana, il quale gli darà anche il posto di lavoro. Collodi scrive sulla sua Nazione, sostiene tenacemente l’unità d’Italia, ci crede, e quando arriva il momento dell’unità raggiunta, il famoso 17 marzo ’61, lui sente che ha raggiunto un grandissimo traguardo, è fra quelli che partecipa con grande entusiasmo all’unità nazionale. Poi però negli anni a venire cambia atteggiamento, ma non ci vuole tanto tempo per capire che i problemi sono più grandi della classe politica. Basti pensare che subito dopo l’unità scoppia nel Mezzogiorno la guerra del brigantaggio che durerà 4 anni, e chi la fa non erano briganti: erano i meridionali, erano i giovani che non volevano andare a fare 4 anni di leva perché allora il servizio militare era obbligatorio. Erano i contadini che si ribellavano al fatto che venissero chiusi i conventi, perché non sapevano che cosa farsene delle figlie femmine, perché in una famiglia di 10 persone la dote necessaria per sposarsi si poteva farla a una sola, la primogenita, e il resto di loro doveva andare in convento. E con questa situazione venivano chiusi i conventi. Le braccia maschili servivano per i campi, e invece venivano portati via 4 anni. Certo era giusto per amalgamare l’Italia: bisognava prendere i giovani siciliani e mandarli in Piemonte e magari lì trovavano la ragazza, si sposavano e si creava in questo modo veramente l’unificazione del Paese. Ma come fare a spiegarlo in un momento in cui non avevano neanche da mangiare e venivano colpiti da imposte, quelle piemontesi che nel meridione non conoscevano, come l’imposta famigerata del macinato nel 1868? Era un’imposta tremenda, colpiva il giro della macina per fare dal grano la farina, per cui era come un contatore, non scappavi. Però alla fine cosa colpiva se non il pane? Io ricordo le mie nonne che dicevano: almeno pane e cipolla bisognava averle in tavola. Ecco, se il pane glielo proibivi, rimanevano solo le cipolle se andava bene la raccolta. Davanti a tutto questo c’era la delusione massiccia verso lo stato unitario e la piemontesizzazione, cosa che migliorerà anche grazie a Lorenzini, nel periodo di Firenze Capitale. Perché Firenze non aveva voluto la capitale, l’aveva considerata -come diceva Bettino Ricasoli- una tazza di veleno che ci tocca assorbire (perché veniva invasa da 30.000 buzzurri, diventava sede dei Ministeri, di tutta la cricca politica, e Firenze fu ben contenta quando nel ‘71 la capitale se ne andò a Roma, a parte la questione dei debiti che travolsero il comune del povero Ubaldino Peruzzi. Dopo quel periodo glorioso, aureo, pieno di attese e di speranze, arriva la delusione della realtà toccata con mano. Quando si parla di secondo Risorgimento e della Costituente, non è molto diverso quello che abbiamo vissuto nel ‘46. Tanti grandi personaggi, si pensi a Calamandrei, a Ragghianti, a Valiani, Galante Garrone, Ferruccio Parri, quelli che erano stati gli eroi della Resistenza, quelli che avevano guidato la lotta contro il Fascismo, dopo condurranno una vita appartata: non li ritrovi in Parlamento, si mettono da parte. Perché l'Italia che esce dopo il ‘48 è un’Italia che piano piano torna ad essere non l’Italia democratica ma l’Italia liberale, quella che c'era prima del Fascismo, l'Italia prefettizia se vogliamo, ma non con quella spinta innovativa che loro volevano dare. Quindi proprio per la delusione profonda e cocente che lui prova, a questo punto comincia addirittura a colpire più violentemente la classe politica, fino a trovare un rifugio nel mondo dei ragazzi. Lo trova in Minuzzolo e nel Giannettino, lo trova poi soprattutto in Pinocchio. E in questo suo mondo lui può criticare, può colpire i corrotti, può colpire i ladri, senza poter essere richiamato da nessuno perché si tratta di una favola. Però noi sappiamo che è favola fino a un certo punto”.
La Fata Turchina è giudicata da alcuni una figura di scarsa consistenza. Ma il suo ruolo di educatrice rende l'autore della fiaba incredibilmente avanti coi tempi. Siamo alla fine dell'800, quando le donne non contavano sostanzialmente nulla. Erano al massimo la “figlia di” e “la moglie di”...la donna aveva una sua importanza e una sua valenza solo in funzione dell'uomo a cui apparteneva. Quindi una Fata Turchina con questa funzione quasi rivoluzionaria, rivela un Carlo Lorenzini precursore dei tempi, che dà valore alla donna già due secoli fa...
“Certamente il ruolo della donna non era quello che poi si sperava di conquistare, però si deve tenere conto del fatto che a Firenze, in quel periodo, veniva pubblicata la rivista Nuova Antologia (che nasce proprio nel 1866), fin dalla nascita aveva sollevato il problema del ruolo della donna. Nel primo numero infatti, Cristina di Belgiojoso - grande patriota e grande donna, che aveva speso i denari della sua ricchissima famiglia proprio per sostenere la causa risorgimentale - affrontò il tema del ruolo della donna nel presente e nell'avvenire; e in questo suo articolo - che non è di una femminista - lei diceva “non si tratta di fare una legge. Si tratta di vincere una tradizione, un costume. Cioè la mentalità della donna che, per piacere all'uomo, sa di dover essere sottomessa. Non può essere un'intellettuale, non può essere una persona inserita nella società perché lui non ne sarebbe contento, lo deve piuttosto servire. Quindi quell'immagine che lei dà è perfetta, c'era già la coscienza. La Fatina, una figura femminile, alla fine del 1880 quando purtroppo la situazione non era molto cambiata (per l'emancipazione della donna si fanno battaglie ancora oggi che sono passati anni e anni e ancora si cerca una conquista che è graduale ma che è molto molto lenta). Collodi, dovendo rappresentare il massimo del bene, sia la società sia la Madonna ecc, ricorre a una figura femminile, sia pure quella di una fata. In un certo senso questo muove nella direzione per cui già nel '66 Firenze aveva preso coscienza che la situazione così com'era non sarebbe potuta durare. Proprio in quegli anni, nel ‘66, si laureava a Londra la prima donna medico della storia dell'umanità. Ma Cristina di Belgiojoso diceva “Voi pensate che avrà anche solo un cliente? Che qualcuno andrà a farsi visitare da una donna?” Aveva ragione. Oggi siamo pieni di bravissime donne medico e ci sembra naturalissimo, però allora, in quel tempo, una donna poteva anche riuscire alla fine a sfondare in un'università, ma pensare che poi avesse dei clienti era un assurdo in quel particolare momento. Le conquiste sono state lente, ma certamente Collodi è stato preveggente in questo”.
La generazione del secondo dopoguerra è una generazione nata e cresciuta all’ombra di Pinocchio. Le mamme di quel tempo leggevano Pinocchio ai loro figli la sera prima di addormentarsi. Pinocchio rappresentava per quei bambini un punto di riferimento, una via maestra da seguire. Ma oggi, alle nuove generazioni di bambini, questa figura viene presentata nel modo giusto oppure si è perduta ed è rimasta una cosa del passato?
“Pinocchio rappresenta il monito, per le generazioni che hanno vissuto una disgrazia come appunto quelle del secondo dopo guerra, a rimboccarsi le maniche e col lavoro a tornare forti. L’Italia del miracolo economico è l’Italia che, da Paese completamente distrutto, è risorto a Paese tra le sette potenze mondiali. Pinocchio non ha perduto niente della sua validità, perché è basato su dei valori e principi fondamentali che non passano con il tempo ma rimangono profondamente attuali. Però, quanto oggi si possa richiamare la lezione di Pinocchio nelle famiglie, con la superficialità che esiste nel mondo di oggi, con quel correre frenetico dove tutto è uno spot, è difficile da dire. Faccio però parte della Fondazione Collodi e so quanto i contatti nel mondo verso Pinocchio e la Fondazione siano attivi da tutte le parti del mondo e nelle varie lingue, e questo mi fa pensare che la sua attualità non l’abbia persa. Però forse quello che è venuto meno è quel senso di focolare, il fatto che fosse la madre a leggere al figlio Pinocchio; non è il fatto che Pinocchio non si legga, ma manca magari quel momento che è il momento di grande formazione e di grande riflessione. Bisogna forse tornare a riflettere di più su Pinocchio”.
Alle generazioni del 2020 che messaggio di costruttività potrebbe lasciare attraverso uno dei suoi personaggi?
“Non bisogna abbandonarsi, questo è sostanzialmente il primo messaggio che potrebbe lasciarci. I giovani vivono un mondo difficile, forse è sempre stato difficile, questo però lo è in modo particolare, perché c'è minore contatto con la famiglia e con quello che era il nucleo protettivo. I giovani sono abbastanza abbandonati a se stessi, perché quando vediamo un bambino alle medie, alle elementari o addirittura nel passeggino col telefonino in mano, si trova davanti ad uno strumento che in qualche modo lo isola dal mondo reale che lo circonda. La digitalizzazione è un enorme potenziale che ci permette di condividere incontri anche in periodi di lockdown ognuno dalla propria abitazione, però deve essere considerata semplicemente uno strumento da utilizzarsi con parsimonia. Quando sento dire “il domani è tutto della digitalizzazione”, non è vero, è un’illusione. Il digitale non ti può dare quello stare insieme, quel guardarsi negli occhi, che ha più valore delle parole. Il vis à vis è l’unico modo per creare un rapporto e i ragazzi di oggi devono creare rapporti, lo devono volere. Vedete quanti si agitano perché vogliono tornare a scuola e smettere con queste lezioni di didattica a distanza. Hanno voglia di rivedere i compagni e i professori. Non si pensi di sostituire il rapporto umano con il digitale o con le macchine. I ragazzi devono combattere per il diritto alla costruzione di rapporti interpersonali, come lo abbiamo avuto noi, in tempi diversi, ma non per questo più difficili”.
Un percorso educativo nelle scuole su Pinocchio potrebbe essere fattibile?
“Non si può sapere se i singoli insegnanti abbiano fatto ricorso a Pinocchio. So che Pinocchio andrebbe spiegato, ossia letto e commentato, non per sapere come va a finire, quello non è importante. Andrebbe capito nei suoi passaggi, collegandolo con quella che è stata la vita di Carlo Lorenzini, i tempi in cui egli visse e operò: allora si potranno capire, estrapolare dalla vicenda di Pinocchio, quei valori che poi sono i valori che devono accompagnare anche i giovani di oggi nella loro formazione. Sarebbe dunque utilissimo e proficuo proporre progetti di questo tipo, anche magari cominciando da una quantità piccola di scuole per vedere se il progetto funziona, e a quel punto potrà essere ampliato. Quando Lorenzini scrive e si occupa della povera gente, non è il solo: siamo negli anni '80 dell'Ottocento (Pinocchio esce nel 1883), e negli stessi anni Edmondo De Amicis, proprio sulla Nuova Antologia pubblica il primo capitolo di “Cuore”, per vedere l’effetto di questa storia, tutta ambientata e basata nella realtà scolastica, con tutte le differenze sociali che esistevano all'epoca, la reazione che provocava in un poveretto rispetto al compagno figlio di benestanti. Nel 1888 Verga pubblica “Mastro Don Gesualdo”, a puntate e sempre sulla Nuova Antologia. Il Verismo degli autori di quegli anni, che descrivono nelle loro storie la società di quegli anni, rivisita una realtà che deve essere spiegata e compresa oggi”.
Maurizio Costanzo