Il rapporto conflittuale tra Firenze e l’Italia? Perché, diceva Oriana, non è la stessa cosa

Solo i più giovani riescono a festeggiare liberamente. Gli over 40 non ce la fanno a dimenticare i torti sportivi del passato e fremono meno

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Firenze, 8 luglio 2021 - Cos’è stato, un gesto nobile o un limite? Mentre la traiettoria barocca della palla calciata da Chiesa gonfiava la rete, quasi tutta l’Italia si è ritrovata in piedi a manifestare gioia, ritrovandosi in un abbraccio collettivo. Io invece no. Mea culpa, mea culpa, mea sportivissima culpa, ma confesso che di fronte a quel colpo magnifico di un giocatore che in un recente passato ci ha fatto troppo soffrire, io come altri fiorentini non ce l’ho fatta a esultare, limitandomi a una gioia striminzita e contenuta. Cos’è stato dunque questo? Il gesto nobile di chi considera la fiorentinità un valore assoluto o il limite di chi non riesce a passare sopra i piccoli screzi provinciali per ritrovarsi insieme in un sentimento nazionale alto? Sì, quello fra Firenze e la Nazionale di Calcio è un rapporto complesso, bipolare, non facile nemmeno da spiegare. Se da una parte questo è il luogo dove la Nazionale risiede anagraficamente (via Gabriele D’Annunzio 138, Coverciano) dall’altra è la città che nel 1993, in occasione dell’amichevole Italia Messico, andò alla stadio col sombrero per testimoniare da quale parte stava, e la cosa più carina che l’allora presidente federale Antonio Matarrese si sentì intonare dagli spalti fu l’accostamento con Pietro Pacciani. Il tutto per l’idea (o la suggestione) di un conflitto profondo che non potesse tenere insieme la passione per la Fiorentina e il tifo per l’Italia, presunta vessatrice della causa viola. Sì, in nessuna altra città d’Italia il fronte di chi vive la Nazionale con una passione tiepida rispetto al sentimento profondo col quale partecipa alle vicende della squadra di calcio della città, è così visibile, così cocciuto come qui a Firenze. Certo, per nobilitare ciò potremmo aggrapparci alla Fallaci, ricordate? "Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa". Ma sarebbe il voler giustificare culturalmente un sentimento che invero non ha lombi snob, piuttosto una dimensione popolare e picaresca. Perché il rapporto fra Firenze la Nazionale non è sempre stato questo, anzi.

Negli anni ‘50 fu motivo di vanto il trasferimento in blocco della Fiorentina in azzurro; in Messico nel 1970 tifammo con Picchio De Sisti e Valcareggi e nel 1982 ad alzare la coppa fra i nostri applausi c’era Giancarlo Antognoni. Poi qualcosa si è guastato. I torti veri o presunti subiti dalla Fiorentina nello scudetto negato del 1982; la coppa Uefa con la finale ad Avellino e lo scippo di Baggio, che in quel 1990 lasciò il viola e diventò campione assoluto in azzurro. In quel momento in quelle generazioni che amavano la Fiorentina si è come consumata una rottura. L’idea, reale o meno, che quei torti alla causa viola, quegli spregi dolorosi arrivassero da chi gestiva le cose azzurre, costringendoci a scegliere la parte dove stare. Pasquini terzomillenari pronti a sferzare con l’ironia e il disincanto il Papato calcistico. Da allora, mezza città continua a sentirsi naturalmente italiana, volando sopra questa impostazione, mentre l’altra, soprattutto la parte più anziana e permalosa della quale colpevolmente fa parte chi scrive, mantiene un sentimento più tiepido nei confronti della squadra azzurra, non riuscendo a gioire fino in fondo per dirigenti o calciatori che in qualche modo hanno ferito la fiorentinità. Come appunto Federico Chiesa, campione assoluto in campo, ma certo non prodigo di affetti verso quella maglia e quella città che lo hanno reso campione: davvero la sola ipotesi di vittoria nazionale è bastevole a cancellare tutto ciò? Roba da vecchi acrimoniosi, potrebbero obiettare in tanti. E non è certo un caso che l’altra sera alla parata finale di Donnarumma, la maggioranza dei fiorentini scesi in strada a far festa fosse composta da giovani. Ragazzi con il cuore ancora integro, non logorato dalla condanna della memoria e dall’acidità che è propria dell’età. Tant’è.

Per questo quelli come me anche domenica prossima, nella sfida finale di Wembley, si siederanno sul divano tifando sì Italia, perché nessuno può sedersi ragionevolmente dalla parte inglese del tavolo, ma con la certezza che la possibile vittoria non ci consegnerebbe gli stessi infarti emotivi che ci ha consegnato la Fiorentina nella sua storia anche in momenti apparentemente minori: il gol di Fantini che ci riporta in A, Gilardino all’Anfield Road, la tripletta lunare di Pepito Rossi alla Juve. Lasciando agli altri decidere se questo sia un limite o il gesto nobile di chi ha la sua città e la sua squadra di calcio nel cuore più di ogni altra cosa. E che, proprio come la Butterfly pucciniana, per sognare non ha bisogno né del consenso di massa né delle grandi cose. A occhio roba da sognatori romantici più che da provinciali.