DAVID ALLEGRANTI
Cronaca

Conte ruba la scena se il Pd è poco radicale

Forse chi l’ha sostenuta, dentro e fuori dal Pd, se l’aspettava un po’ diversa, la segreteria di Elly Schlein

Pecore elettriche

Pecore elettriche

Firenze, 17 dicembre 2023 – Forse chi l’ha sostenuta, dentro e fuori dal Pd, se l’aspettava un po’ diversa, la segreteria di Elly Schlein. A qualcuno era parsa fin da subito come la "Renzi di sinistra": giovane, capace di rovesciare il risultato del voto degli iscritti rivolgendosi direttamente al popolo della sinistra, elettori a Cinque Stelle compresi (grazie alle primarie ora scomparse dai radar), con la volontà di fare piazza pulita. Una versione più addolcita della rottamazione, ancorché sostenuta dai Dario Franceschini.

A quasi un anno dall’elezione di Schlein, i sondaggi dicono che il Pd è poco sopra il 19%, e i più tiepidi sembrano essere proprio i supporter della segretaria, che speravano in alcuni cambi di rotta. Per esempio sulla guerra in Ucraina, che nel frattempo è stata affiancata da un’altra guerra dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Qualcosa in realtà si sta anche muovendo, nel Pd, tant’è che la parte più riformista - da Lorenzo Guerini a Paolo Gentiloni - teme che il partito diventi timido sul sostegno al popolo ucraino. Il commissario Ue all’Economia, a Roma per la due giorni di Forum sull’Europa, ha usato parole inequivocabili: "Credo che senza sostegno all’Ucraina non si creeranno rapporti per una prospettiva di pace, piuttosto arriverà un’ombra sul futuro della nostra libertà in Europa. Dico no a chi non vuole vedere che questo sostegno è la condizione ineliminabile per le minacce che incombono sull’Europa".

Chi chiede di rivedere la linea di sostegno finanziario e sopratutto militare a Kiev non ha apprezzato. Ma soprattutto sembra non apprezzare fino in fondo la poca radicalità di Schlein, che viene superata a sinistra da Maurizio Landini, leader della Cgil, e da Beppe Conte, capo del M5S. A furia di descriverlo come il "punto fortissimo di riferimento di tutti i progressisti", infelice frase pronunciata da Nicola Zingaretti quando era segretario del Pd, e che lo inseguirà per i prossimi vent’anni, Conte ha iniziato a crederci. Tant’è che il capo del M5S parla come il (vero) leader dell’opposizione al governo Meloni. Distribuisce patenti di legittimità politica, critica sprezzante le sortite dell’esecutivo, duella direttamente con Giorgia Meloni, che in settimana, durante il dibattito parlamentare, gli ha dedicato non poche attenzioni, dal Mes ai “superbuffi” del superbonus. Conte si sarà sentito senz’altro valorizzato: è lui l’avversario dell’opposizione individuato dalla presidente del Consiglio. Tatticamente una mossa interessante, di Meloni: nobilita Conte infischiandosene del Pd.

E lui, Conte, che combina? Si fa capopopolo nelle piazze e ha militarizzato il suo partito, sfilandolo all’eredità morale di Beppe Grillo e a quella politica di Gianroberto Casaleggio. E il Pd non può farne a meno, di quest’alleanza con il M5S, perché i Democratici sono sempre convinti di avere qualcosa di cui farsi perdonare. La stagione di Renzi viene costantemente evocata in senso deteriore, a partire dallo stra-citato Jobs Act al quale tutti, da Schlein a Conte, fanno riferimento per dire da dove la sinistra non deve ripartire. Il M5S è stato il surrogato del Pd nel rapporto con il popolo, Conte ha ormai questo vantaggio politico (ma anche sociale e antropologico) e ne fa ampio uso quando c’è da rivolgersi all’elettorato.

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