LUCA SCARLINI
Cosa Fare

Qui comincia la sventura del signor Bonaventura. Il grande cultore del teatro rende omaggio al genio di Tofano

In un articolo del 16 gennaio 1954 Silvio D’Amico, critico e organizzatore teatrale, racconta di come questa forma di spettacolo ha scoperto la figura del regista per venire incontro alla gente.

Qui comincia la sventura del signor Bonaventura. Il grande cultore del teatro rende omaggio al genio di Tofano

Qui comincia la sventura del signor Bonaventura. Il grande cultore del teatro rende omaggio al genio di Tofano

Domandarono una volta a Sergio Tofano come mai gli fosse venuta in mente l’idea d’accompagnare, al suo signor Bonaventura, il Bassotto. Rispose: "Mi occorreva una rima in otto". E’ una dichiarazione che, a capir le origini di Bonaventura, giova molto più delle indagini estetiche e psicologiche. Il volume in cui è pubblicata L’Isola dei pappagalli contiene una prefazione di Renato Simoni; il quale, genialissimo indagatore dei caratteri dei nostri attori, ravvisa in Bona ventura come chi dicesse una confessione lirica, personale, di Tofano. Interpretazione a cui tutti possiamo accedere,

se non altro nel senso che tutte le opere d’arte son confessioni autobiografiche. Adesso poi al Teatro delle Arti, nel programma appunto dell’Isola dei pappagalli, spettacolo d’amenità squisitissima, che in Paesi teatralmente più civili del nostro avrebbe cen tinaia e centinaia di repliche rileggiamo il piccolo saggio del caro Alberto Cecchi, che con una finezza tutta sua delinea i tratti di Bonaventura, definito l’"ultima maschera" italiana. E dire che proprio or ora un informatissimo studioso di folclore, Paolo Toschi, è venuto a esporre certe sue asserzioni circa l’apparizione delle maschere Italiane risalendo, dalle burle di carnevale, su su fino alle preistoriche divinità sotterranee, infernali, e via di cendo.

Chiediamo il permesso di riportare le origini di Bonaventura in un clima meno allarmante, fra indagini meno com plicate. Per noi Bonaventura non è propriamente un fantoccio: non un burattino, di quelli che si manovrano con la mano del burattinaio; non una marionetta, fatta agire coi fili; insomma, non un pupazzo a tutto tondo, da potergli girare intorno. Non ha tre dimensioni, ne ha due; non è scolpito, è dipinto. E la sua grazia suprema gli deriva appunto da ciò: vogliamo vedere in che modo ?

Niente di truce, né di infernale, in Bonaventura. Al contrario: Bonaventura è la maschera dell’ottimismo. Apparve la prima volta nel 1917, che ancora infuriava la guerra, sulle pagine del Corrierino, come protagonista d’una sequela di quelle storielle umoresche, che per lunga tradizione s’iniziavano baldamente, per andare a finire in una più o meno buffa catastro- fe. La novità del suo autore, Sergio Tolano detto Sto, consisté anzitutto in questo, nel capovolgere la formula tradizionale: la catastrofe del suo eroe non era alla fine, era al principio. Bonaventura

moveva da un grosso guaio iniziale (Qui comincia la sventura del signor Bonaventura) per sboccare in una gioiosa vittoria, del resto implicitamente promessa dal suo stesso nome, e visibilmente tradotta nel rituale assegno d’un milione. A parte il bonario spirito di coteste storielle, l’originalità della loro andatura fu tale, che il loro eroe divenne popolarissimo fra i suoi piccoli lettori. Ma è lecito chiedersi quanti. Fra i grandi che pure gettavano uno sguardo sul giornaletto, dei versetti, delle strofette, con cui Sto poeta svolgeva a spiegava le avventure illustrate da Sto disegnatore. Noi diciamo che proprio da quelle cadenze nacque il Bonaventura maschera di teatro.

Il gusto della filastrocca L’avvenimento si registrò dopo un indugio di dodici anni; appartiene al 1929. Sulle nostre scene dilagava tuttora, in forme tragiche o comiche, fiabesche o grottesche, ma sempre aspre, il pessimismo più desolato (inutile elencare qual- che decina di titoli, tutti li conoscono a memoria).

Fu allora che l’attore Sergio Tofano, interprete di Pirandello e di Rosso, di Antonelli e di Cavacchioli, volle una volta tanto essere interprete anche di se stesso; e cioè del suo proposito di consolare sé e gli spettatori almeno quelli che l’età manteneva innocenti, non ancora inquinati dal circostante nichilismo.

(...)

Allora i bambini ridono contenti; e sorridiamo anche noi. Perché la morale è questa: che Bonaventura piace agli innocenti, e a quelli che innocenti non sono più. Se è vero che il supremo scopo del teatro è il ritrovamento di tutti i suoi spettatori nell’unità d’un generale consenso, non par dubbio che anche questi labili e teneri e festosi affreschi del poliedrico Sto siano a loro modo, ma per eccellenza, teatro.