LUCA SCARLINI
Cosa Fare

La Facoltà di Sociologia di Trento. Nella città della Controriforma soffia il vento della contestazione. L’apertura dell’ateneo spaventa

Enzo Tortora, inviato del nostro giornale, racconta l’atmosfera in un reportage del 29 aprile 1970. L’esperimento aveva aperto la via a un percorso di difficile comprensione per gli intellettuali.

La Facoltà di Sociologia di Trento. Nella città della Controriforma soffia il vento della contestazione. L’apertura dell’ateneo spaventa

La Facoltà di Sociologia di Trento. Nella città della Controriforma soffia il vento della contestazione. L’apertura dell’ateneo spaventa

Trento, aprite. "Questo matrimonio tra Cesare Battisti e Ho-Ci-Min non poteva che dare eredi di questo tipo". E’ una definizione, una delle tante, che circolano in città sulla facoltà di socio logia, figlia per il momento unica di quella Università per la cui istituzione tutto il Trentino, così a lungo, si è battuto. Ora è una "patata bollente", una "serpe che incautamente ci siamo allevati in seno", "una fabbrica di rivoluzionari che dobbiamo chiudere al più presto": è possibile, qui a Trento, raccogliere e catalogare migliaia di giudizi che hanno tutti, al centro, la sto- ria di questa neo Università, proliferata con velocità che non ha riscontro negli annali italiani (5000 iscritti in totale ai corsi, 2400 matricole in questo solo anno accademico) e che si è immediatamente allineata, con atenei più illustri, sul fronte bollente della contestazione.

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Non poteva prevederlo, probabilmente, neppure un sociologo tra i più agguerriti. Ma il risultato è questo: una città di neppure novantamila abitanti, che dall’idea, nobile e civile, di realizzare il sogno di un istituto superiore di cultura (era dai tempi dell’Austria che la gioventù trentina doveva prendere coi libri la strada di Vienna o di Innsbruk) si vede ripagata con questo polipo didattico che mostruosamente cresce, e ora, allunga tentacoli muniti di elmetto rosso, sbarra di ferro, ritratto di Mao, libretto dei " pensieri" e ha il piglio deciso di una centrale di rivoluzione".

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Quello che accade a Trento merita un’indagine non superficiale: è, in sostanza, un piccolo anticipo di un futuro che, a livello studentesco, si annuncia gravido di pericolose incognite.

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Un dramma che dura ancora, complicato non solo dalle comprensibili difficoltà ricettive di una piccola città, ma dal singolare atteggiamento che i "sociolo- gi" assunsero subito nei con- fronti della città che li ospitava. Città chiusa, bigotta, oscurantista, città da controriforma: lo dicono gli studenti, con un piglio e con un tono che non può non ferire.

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"Un bel mattino" racconta un giornalista locale, dei più autorevoli, " ci svegliammo con una bella scritta di benvenuto dei nostri sociologi sui muri: "Trentini, siete merda". "Ma c’è un altro punto. La moltiplicazione degli studenti non avveniva per miracolo divino: c’era un preciso intento politico in quel flusso di gente (spesso dall’età inspiegabilmente più alta della media) che accorreva a Trento. Sociologia cominciava, e il maggio francese insegna, a diventare la miccia con la quale si intendeva fare esplodere le strutture stesse della società borghese. La città è scesa in piazza per dire "no alla violenza", i sociologi e i leaders di "Lotta continua" hanno deciso di non mollare. Inscenano manifestazioni e scioperi della fame davanti al Palazzo di Giustizia, dopo aver tenuto venerdì 17, per oltre quattro ore, con mazze, pietre, bottiglie incendiarie e catene d’acciaio, la città sotto controllo. "Non abbiamo fatto vittime" annunciano con orgoglio: ma non garantiscono affatto di poter continuare in questo nobile proponimento. A Trento la situazione può diventare esplosiva.

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Ai primi d’aprile, alla clinica Villa Bianca si presenta, accompagnata da tre "compagni", una giovane studentessa. E’ al nono mese: non esattamente di frequenza, forse è inutile persino precisarlo. Alla rituale domanda (fatta con tutto il garbo possibile, perchè Trento rispetta, come ormai l’Italia intera, le ragazze madri): " paternità?" i tre giovanotti, protendendo l’ampio petto, ornato di ciondoli, esclamano: "metta tutti e tre i nostri nomi". Convinti, a fatica, dell’impossibilità anagrafica di accontentarli (sono "modelli culturali" arretrati, quelli dello Stato Civile) i tre, dopo essersi consultati con la puerpera chiedono di rubricare il bambino come figlio della "Comune Carlo Marx ". Non li accontentano, è ovvio. Sarebbe stato, oltre che un illecito clamoroso, uno schiaffo al povero Carlo Marx. Che i figli aveva il vizietto (tutto borghese) di "firmarli" in proprio.