MARCO
Cosa Fare

Goran e la fuga lontano dall’odio. Da Mostar a Trieste in cerca di vita

Nel suo Paese aveva visto morire tutta la famiglia. L’ultima sua madre, che pregava e non dormiva mai

Vichi

In piedi sulla prua della barca, in piena notte, Goran guardava la città che si avvicinava. In mezzo al buio, le luci delle case ancora sveglie e qualche stella. Un po’ di luna. Più lontano, altre barche si muovevano silenziose, cariche di ombre. Goran guardava quella nuova terra dove sarebbe sbarcato. Era la prima volta che veniva in Italia, se si poteva chiamare veramente Italia una città come quella. La barca proseguiva lenta sull’acqua nera, ondeggiando fino alla nausea. Goran si lasciava ipnotizzare dai battiti lenti del motore. Tun tun tun tun... Quel rumore entrava nelle orecchie, nel cervello, come un cuore nuovo che non perde colpi. Cuore nuovo, vita nuova. Goran era partito da Mostar una settimana prima. Negli occhi aveva ancora le immagini della guerra. Sangue e cadaveri, gambe tagliate, dolore e paura. Ma soprattutto odio. Odio verso la vita, verso il cielo, qualcosa di viscerale che non lasciava scampo. Anche dopo la fine della guerra continuava a sentire dentro di lui quell’odio. Odio puro, infantile, sano. L’odio della bestia che si difende, che combatte per la vita, che è disposta a morire per non morire. "Conosci qualcuno a Trieste?" gli chiese il pescatore, Oreste, un giovane tarchiato con la faccia spaccata dal sale. Goran scosse il capo, senza voltarsi. "Sai almeno dove andare?" "No." "Mah!" fece Oreste, e continuò a fumare. Goran se n’era andato da Mostar, era stato lui a voler partire, ma gli sembrava che Mostar lo avesse vomitato, lo avesse espulso dal suo stomaco avvelenato. Aveva visto morire suo padre, poi suo fratello, gli amici, la sua donna. Alcuni uccisi dalle bombe, altri assassinati dai soldati, non sapeva nemmeno di quale esercito.

Vedeva ancora Daniele, suo fratello, fatto a brandelli da una bomba di mortaio caduta sul mercato. Saltato in aria insieme a pesci e ver dure. L’ultima a morire era stata sua madre. Una povera donna che aveva pregato inutilmente il suo Dio, fino alla fine. La vita l’aveva demolita pezzo a pezzo. Aveva avuto la sfortuna di sopravvivere alla guerra, aveva visto morire tutti gli altri, come Goran. La mattina si alzava dal letto e pregava, il giorno fissava il muro e pregava, la notte si sdraiava a letto, non dormiva e pregava. Lentamente la sua faccia era diventata di pietra. E una mattina non si era più alzata. Goran l’aveva trovata con gli occhi fissi al soffitto. Occhi vuoti, senza più né vita né Dio.

Allora Goran aveva deciso di partire, di allontanarsi da quell’odio che marciva nelle strade. Ora o mai più, aveva detto. Era partito subito dopo aver seppellito sua madre. "Tornerò" le aveva detto, davanti a quel ventre di terra sporca. Si era piazzato all’imbocco dell’autostrada, sperando che un camion lo raccogliesse e lo portasse verso Nord. Pochi soldi in tasca, e nel sangue una grande voglia di scappare. Dopo qualche giorno era riuscito ad arrivare a Fiume. In un locale del porto aveva conosciuto un pescatore che faceva anche un po’ di contrabbando, Oreste. Si erano messi a bere insieme. "Ti porto io se vuoi. Ci devo andare stanotte." "Non posso pagare." "Non fa niente, ti porto io." "Perché lo fai?" "Non ti offendere, ma mi fai pena." "D’accordo." La barca era piccola, puzzava di nafta e di pesce. Ogni tanto nell’acqua nera appariva la luce violacea di una medusa, e Goran pensava a sua madre, seppellita nel buio della terra, tutta sola. Tun tun tun tun... Cuore nuovo, vita nuova. La città si avvicinava, sembrava una grande bestia sdraiata a dormire. Goran non sentiva nessuna emozione. Era come se avesse lasciato tutto il sangue a Mostar. Gli erano rimaste solo le ossa, e un cervello senza più idee. "Tra poco arriviamo" disse Oreste. "Bene." "Dove andrai a dormire?" "Non lo so." "C’è un vecchio mercato del pesce laggiù, lo vedi? Quel capannone..." "Sì." "È pericolante. Devi entrare di notte senza farti vedere. Nessuno ti verrà mai a cercare là dentro." Quando la barca arrivò al molo si strinsero la mano e si lasciarono senza dirsi nulla. Il cielo era altissimo, gelido. Goran dormì nel vecchio mercato pericolante, insieme ai gatti del porto, ad altri clandestini e a qualche barbone. Nessuno gli rivolse la parola. Si sentiva russare e ruttare. Tutto puzzava. Il pavimento era cosparso di rifiuti. Goran si mise giù, sul cemento. Non riusciva a dormire. Guardava il tetto di vetro, pieno di buchi, e vedeva suo fratello dilaniato in mezzo ai pesci e ai meloni.

1-continua