
Salvatore
Mannino
Via Roma è l’unica strada aretina che conservi la denominazione voluta dal fascismo. Tutte le altre intitolazioni, dai viali del Re e del Littorio (quelli del Prato) al piazzale del Duce (la stazione) e a piazza Corsica (la prefettura di Poggio del Sole) furono spazzate via dopo la Liberazione, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di cancellare dalla topografia del centro il riferimento alla capitale, che era poi fascista, ma anche mazziniano, garibaldino e cavouriano, quello che si dice un omaggio condiviso.
La strada che è attualmente una delle più eleganti del salotto buono fu l’ultimo ramo di via Petrarca fino al 1 agosto 1931, quando un ordine del regime, tradotto in circolare dei prefetti ai podestà impose che ci fosse una via Roma in ogni comune d’Italia e che fosse oltretutto un asse non secondario. Pier Ludovico Occhini, il podestà dell’epoca, in carica da circa un anno, se la cavò brillantemente riservando alla Città Eterna, oggetto del mito della romanità del fascismo, una strada che era in piena espansione, anche se non era (e non è) più lunga di un centinaio di metri. Un cameo della volontà del Regime.
Per capire meglio, bisogna aver presente la città dell’epoca. Su quel tratto, un tempo ai margini della cinta muraria in cui era racchiusa Arezzo fino a fine ottocento (basti pensare che viale Michelangelo e viale Piero della Francesca erano la circonvallazione esterna), erano già cominciati negli anni ’20 i lavori di costruzione dei Portici, il suggello in stile neoclassico del palazzo della Cassa di Risparmio che si guardava e si guarda con la sede dell’ex Banca Etruria. Un aspetto, quel grande edificio che ancora domina via Roma su un lato, della demolizione del vecchio, e centenario, ospedale di Santa Maria sopra i Ponti, trasferito nel 1922 fuori porta Crucifera, dove ora c’è il Palazzo di giustizia. Del complesso secolare restano adesso il lato sul Corso e la corte interna che è diventata la piazzetta sopra I Ponti.
Quei portici, appunto, diedero alla strada lo stigma della modernità borghese, il luogo di ritrovo della città benestante, dal ceto medio alle clasi alte, situazione di cui resta la testimonianza in alcune foto d’epoca.
Sono gli anni in cui in via Roma sorge anche, sul lato opposto, anche l’elegante palazzo ex Perugina, opera dell’ingegner Ubaldo Cassi, che ne fece uno dei migliori esempi dell’architettura aretina dell’epoca. Più tardi, invece, negli anni ’60, sarebbe venuto l’altro edificio noto come il Palazzo di vetro, un vero e proprio centro direzionale di prestigio (uffici e studi professionali) dell’Arezzo del Boom.
Da notare che anche la continuità dell’asse principale del traffico in centro, quello di via Roma-via Crispi nasce in quegli stessi anni ’20 e ’30. Prima, infatti, a separarli c’erano alcune case del Corso, che non aveva soluzione di continuità fra parte bassa e parte alta, non ancora separate dal semaforo. Poi il piccone risanatore fece piazza pulita di quegli edifici giudicati ormai non più all’altezza dell’immagine che si voleva restituire di Arezzo. Ed ecco allora il Boulevard unico che sia pure con diversi nomi da piazza Guido Monaco punta dritto come un fuso verso la zona Giotto (costruita a partire dagli anni ’60) e le colline circostanti. Anche via Roma diventa così una metafora di come si è sviluppata l’Arezzo in cui ancora viviamo.