SALVATORE MANNINO
Cronaca

"Vi racconto il crac di Etruria visto da dentro"

Le scelte di Bankitalia, la fusione fallita con Vicenza, il ruolo di babbo Boschi: parla l’ultimo vice presidente Berni. "Bpel si poteva salvare"

di Salvatore Mannino

È l’altra faccia del pianeta Etruria. Quella rimasta in ombra, quella degli accusati (e non solo in senso metaforico) per il crac della banca aretina diventato un gigantesco cortocircuito politico-mediatico-giudiziario. Finora, nessuno di quanti avevano gestito gli ultimi anni di Bpel aveva mai accettato di parlare o di scrivere per ricostruire la trama di quanto accaduto. Lo fa adesso Alfredo Berni, che di quella vicenda è stato testimone e protagonista: direttore generale fino al 2008 nell’ultimo scorcio dell’era Faralli, consigliere d’amministrazione di minoranza in gran parte dell’epoca Fornasari, vice presidente vicario di Lorenzo Rosi nell’ultimo Cda, quello spazzato via dal commissariamento. Lo fa con un libro, "Amarcord di Banca Etruria", uscito nelle librerie ed edicole (è acquistabile anche on line su fruska.it), in una data simbolica del caso Bpel: l’11 febbraio (2015) dell’arrivo dei commissari e (2016) della dichiarazione di fallimento in tribunale che innesca l’inchiesta, e poi i processi, per bancarotta.

Berni, scelta non casuale...

"Assolutamente no. Ogni coincidenza con personaggi e situazioni è puramente voluta".

Cominciamo dall’amarcord. Lei ha trascorso un’intera vita professionale in banca, dal primo gradino fino in cima.

"Sì, io classe 1945 e figlio di un dipendente, sono stato assunto nel 1971 come impiegato. Da lì ho percorso tutti i passaggi della scala gerarchica: funzionario, dirigente e infine Dg dal 2005 al 2008, quando Faralli mi allontanò per mantenere i suoi equilibri. IN quegli anni, come racconto nel libro, lui cambiò spesso i Dg. Sono rientrato nel 2011 da consigliere e nel 2013, quando a Fornasari fu chiesto un passo indietro da Bankitalia, sono stato eletto prima nella lista unitaria per il Cda e poi vicepresidente, io vicario perché ero più anziano dell’altro vice, Pierluigi Boschi. In via Nazionale mi manifestarono qualche perplessità, io risposi che dall’esterno potevo far poco, dall’interno qualcosa potevo contribuire a fare".

Che idea si è fatto di quegli anni tempestosi in cui Bpel è stata inghiottita dal crac e che le sono costati una condanna di primo grado per bancarotta?

"Guardi, è stato un periodo difficilissimo per tutto il sistema bancario. Siamo passati, anche in Banca Etruria, da una politica espansiva del credito e di istituto aggregante a una stretta sistemica di liquidità e di progressivo aumento delle sofferenze, causato soprattutto dalla grande crisi del 2008, in larga parte imprevista e imprevedibile".

Ma lei scrive nel suo libro che la banca poteva salvarsi.

"Sì, fino a quando non ci hanno imposto da via Nazionale, per adeguamento alla normativa europea, criteri di svalutazione dei deteriorati molto al di là dei precedenti, la banca aveva parametri e capitale tali da poter essere risanata, magari con un’alleanza. Tanto è vero che ancora ai tempi della famosa lettera del governatore Visco del 3 dicembre 2013, non c’erano le condizioni del commissariamento".

E perché secondo lei Banca d’Italia è stata così severa?

"Per carità, Bankitalia si è mossa in maniera discrezionale ma legittima. La mia idea è che si pensasse a una razionalizzazione del sistema e alla creazione di un polo popolar attorno alla Vicenza. Ecco, noi eravamo destinati a quel matrimonio, tanto è vero che l’unica alternativa, Bper, si ritirò. Prima ci hanno spinto e poi quando le nozze non sono andate in porto ci hanno fatto pagare il prezzo".

Ma quel matrimonio con Vicenza s’aveva da fare o si poteva fare davvero?

"Io, come del resto tutto il Cda, ho fatto il possibile per portarlo in fondo, anche al di là delle mie convinzioni. L’idea che mi sono fatto è che Zonin, il presidente della Popolare Vicenza, abbia svolto un gioco tutto suo".

Ci racconti i retroscena.

Nel giugno 2014, di fronte alle resistenza della politica e del mondo produttivo aretino, in particolare gli orafi, raggiunsi un accordo con Samuele Sorato, dg della Vicenza: subito le nostre filiali del nord a loro e poi, in autunno, la fusione in un clima più disteso. Quell’intesa fu accettata anche da Zonin in un incontro che avemmo, c’era anche Rosi, sabato 14 giugno nella sua villa in Chianti. Ma il lunedì in Banca d’Italia lui si rimangiò tutto. Il resto è storia".

Senta, in tutta la vicenda del crac c’è un convitato di pietra, Pierluigi Boschi che innesca il caso mediatico.

"Boschi è stato un semplice consigliere, con ben poco potere fino a febbraio 2014, quando la figlia diventa la ministra più importante del governo Renzi. Crebbe l’idea che Etruria fosse diventata la banca di Renzi ed è stata la nostra rovina, perché delle altre banche finite in risoluzione nel novembre 2015 non si è più parlato. Noi siamo diventati la pietra dello scandalo. Un groviglio in cui tutti gli oppositori di Renzi davano addosso a noi per attaccare lui. E in città nessuno ci ha difeso, neanche le istituzioni. Un grande rammarico. Non voglio difendere noi amministratori ma la Banca poteva essere salvata, chiaramente avrebbe perso l’ autonomia ".

Fino all’11 febbraio 2015, quando arrivano i commissari.

"Noi votammo il bilancio con 620 milioni di svalutazioni coi commissari fuori dalla porta. Seduta drammatica e non so quanto valida".

Che idea si è fatta delle assoluzioni nel maxi-processo?

"Non entro nei processi, non commento. Secondo gli addetti ai lavori le motivazioni giuridiche sono solide".