GAIA PAPI
Cronaca

Storie di contagio: la "guerra" di Carlotta, infermiera all'ospedale Sacco

E’ infermiera a Milano nel centro di eccellenza anti-infezioni: poteva tornare in Toscana, ha preferito restare lì: «Mi sono sentita al posto giusto nel momento giusto»

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Arezzo, 2 aprile 2020 - E’ una battaglia di trincea, quella combattuta ogni giorno da medici e infermieri. Una battaglia che una giovane aretina sta combattendo dall’ospedale Sacco di Milanom, ccentro d’eccellenza della Lombardia per le malattie infettive, dove ogni giorno si cerca di strappare alla morte i malati di Covid-19. Si chiama Carlotta, non ha ancora 27 anni, la sua storia è stata raccontatada Toscana Oggi.

E’ l’infermiera di area critica più giovane del reparto di terapia intensiva dell’ospedale milanese. Carlotta consegue un master, vince un concorso e ha un lavoro. Quando pensa che la vita stia finalmente prendendo il verso giusto, tutto viene stravolto. La ragazza si ritrova nei percorsi protetti a pressione negativa, realizzati per evitare che i virus possano uscire. Prima di entrare c’è una lunga trafila da rispettare: indossa la tuta, la maschera protettiva, due cuffie e tre paia di guanti.

Quasi un’armatura che rende arduo qualsiasi movimento. Carlotta lavora qui da giugno. In pochi mesi ha visto moltiplicarsi le stanze di biocontenimento e i colleghi che lavorano al suo fianco. «Abbiamo a che fare – racconta – con situazioni al limite. Arrivano moltissime persone, non solo anziani. Abbiamo anche ricoverato una ragazza di un anno più di me. Siamo abituati a vedere giovani nel nostro reparto, ma quello che sconvolge sono i numeri.

Ho tantissime domande, mi chiedo quale sia il mio ruolo a fianco dei pazienti. Molti di loro arrivano già intubati, sono sedati, non ti vedono e non ti sentono. L’unica cosa che ho da offrire è la mia assistenza; magari la mattina ci ritroviamo a fargli la barba, di modo che la mascherina possa essere ben aderente». «All’inizio eravamo spaesati, un po’ tutti avevamo sottovalutato la situazione.

Dopo la reazione dei primi giorni, ti prende un calo fisico, inizi a sentire sconforto, paura, o comunque l’esigenza di trovare un senso a quanto sta accadendo. Alcuni miei colleghi hanno anche familiari ricoverati. Ho visto un mio collega in bagno che piangeva. Altri non tornano a casa per la paura di contagiare le famiglie». Carlotta pochi giorni fa, dopo un concorso che le avrebbe permesso di avvicinarsi a casa, ha deciso di non entrare in servizio in un ospedale toscano.

«Mi sono resa conto che ero chiamata a rimanere qua. Mi sono sentita nel posto giusto al momento giusto. Non vorrei essere da nessun’altra parte». «Questo è il mio lavoro. Non è stata una scelta immediata, tutti i giorni c’è un passo tra la vita e la morte e nel tempo ho imparato ad amarlo».

Un amore forte, che però non evita riflessioni profonde: «Qui le persone muoiono sole. Vedere questo ogni giorno, genera un senso di inquietudine, inadeguatezza e impotenza enormi. Ritorni a una condizione di povertà. Ma è anche un’occasione per approfondire la fede». Carlotta ogni giorno che passa in mezzo la dolore, si rifugia in questo. La fede e l’amore per il suo lavoro.