
Fu allievo prediletto di Giovanni Gentile e inaugurò la corrente del "problematicismo". Oggi inorridirebbe di fronte alle raccomandazioni linguistiche per la parità di genere.
Santori
Ugo Spirito è uno dei massimi filosofi del secolo scorso. Aretino di nascita, è rimasto legato alla sua città e nel 2019, nei 40 anni dalla morte, il Comune - in collaborazione con la Fondazione a lui intitolata - gli dedicò una mostra fotografica e un convegno. Nato nel 1896 e morto nel 1979, Spirito si rivelò il migliore allievo di Giovanni Gentile dal cui insegnamento, peraltro, si allontanò per creare una sua originale scuola filosofica che chiamò "problematicismo", una specie di positivismo basato su una fiducia profonda, ma criticamente controllata, nelle scienze e nelle loro espressioni tecnologiche, nella convinzione che non vi sia alcuna contrapposizione tra la figura dell’individuo e quella dello Stato, questo essendo l’istituzione entro la quale l’individuo viene progressivamente a realizzarsi.
Aveva aderito al Fascismo portando avanti, dopo la crisi del 1929, il più ambizioso dei progetti di Mussolini, quello dello Stato corporativo, andando però ben oltre le intenzioni del Duce con un’interpretazione radicale: la cosiddetta "corporazione proprietaria" che prevedeva un massiccio esproprio di industrie private, inconciliabile con le direttive ufficiali, tanto da suscitare una violenta reazione da parte del fascismo conservatore con relativa accusa di comunismo.
Al comunismo appunto Spirito rivolse la sua attenzione profonda quando, caduto il regime, dopo la seconda guerra mondiale, a seguito di personali esperienze di viaggio in Unione Sovietica e in Cina, nel dichiararsi comunista, si rese conto della profonda differenza che intercorreva tra l’interpretazione sovietica, e soprattutto cinese, del marxismo-leninismo e quella dei partiti comunisti occidentali, in particolare il Pci, da lui visto come borghesi e avente lo scopo di portare il proletariato all’usufrutto delle conquiste della borghesia.
Esattamente 60 anni fa, nel 1965, pubblicava il suo libro più famoso e controverso: "Il comunismo", nel quale sosteneva che il comunismo occidentale stava già perdendo il suo carattere rivoluzionario ed era destinato fatalmente a uno "spostamento progressivo verso destra fino a un punto d’incontro politico generale, che può essere classificato grosso modo come socialdemocrazia... che vuol dire ancora borghesia e cioè una realtà a mezza strada tra mondo privato e mondo pubblico, tra soggetto autonomo e soggetto oggetto di scienza, tra vita del singolo e vita della collettività".
I fatti, se si considera la natura e l’azione delle forze politiche che sono eredi dei partiti comunisti e socialisti degli anni Settanta e Ottanta, stanno confermando la sua intuizione: una buona ragione per rivalutare Spirito come filosofo e dunque per rileggere con attenzione "Il comunismo", accanto a "La vita come ricerca", ripubblicata nel 2007.
Ma su un altro punto il filosofo aretino si è rivelato lucido profeta. Ha intuito il rischio sotteso alla difesa delle scienze e della tecnocrazia: lo strapotere dei media. Sostiene infatti che nei regimi dispotici si tende a contenere e controllare le opinioni personali giungendo alla proscrizione di vocaboli e nomi sgraditi, come quando il Fascismo cadde nel ridicolo pretendendo di sostituire cocktail con "bevanda arlecchino", cognac con "arzete", parquet con "tassellato", pied-à-terre con "fuggicasa", Louis Armstrong con "Luigi Fortebraccio" e Benny Goodman con "Beniamino Bonomo" e via dicendo. È la geniale premonizione del filosofo aretino anche in tempo di democrazia, se si pensa al clamore suscitato dalla raccomandazione dell’Eige (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) a evitare parole come "virile" in quanto associato all’uomo e quindi non inclusivo e da sostituire con "energico" o "forte". Per non parlare del bando di un aggettivo come "stridulo" che sarebbe invece associato alla donna, e quindi reo di maschilismo da sostituire con "acuto".
Oggi Spirito non esiterebbe a riconoscere nelle sopra riportate radicalizzazioni del politically correct, ai limiti del ridicolo, un esito da lui lucidamente previsto. Tutto questo non va confuso naturalmente con la legittima rivalutazione, finalmente sostenuta dal recente vocabolario Treccani, dell’uso dei termini femminili per le professioni normalmente registrate col maschile in quanto un tempo interdette alle donne, come "ingegnera", "architetta", "avvocata" e simili (del resto motivi di cortesia e buona educazione hanno sempre dato vita ad espressioni come "signore e signori" e simili). Anche nella filosofia Arezzo ha dato il suo contributo al cosiddetto "villaggio globale".