REDAZIONE AREZZO

Passeggiando sulle mura del Prato Albert Camus stregato da Piero

Nei taccuini del premio Nobel autore della "Peste" le annotazioni dei suoi viaggi in Italia. Una in. particolare assomiglia a un testamento morale: vorrei tornare sulle strade della Valtiberina

Se fosse ancora fra noi, Albert Camus (1913-1960) rimarrebbe sorpreso dalla cospicua ripresa di vendite del suo capolavoro, La peste, pubblicato nel 1947, che sembra sia stato il libro più letto o riletto in questi ultimi sei mesi di reclusione, di mascherati sospetti, di sguardi in tralice e di paure. Come i suoi grandi predecessori, Boccaccio, Defoe, Manzoni, egli ci ha ricordato la nostra estrema fragilità sociale e individuale, senza dimenticare, allo stesso tempo, le responsabilità che abbiamo. Ma poiché di pandemie si parla ovunque, tiriamo in ballo il grande scrittore francese per altri, più gradevoli motivi i quali, oltretutto, fanno onore ad Arezzo e alla sua terra.

Come è noto, Camus ha compiuto tre viaggi in Italia, ma si è fermato in Toscana solo al tempo del secondo, nel 1937, e successivamente nel 1959, due anni dopo avere ricevuto il premio Nobel e un anno prima della morte in un incidente automobilistico. Quello che lo attrae ad Arezzo, a Monterchi e a Sansepolcro, è l’opera di Piero della Francesca che considera uno dei capisaldi della civiltà occidentale. Le pagine dedicate al pittore e ai suoi luoghi: ad Urbino con le tavole della Flagellazione e della Madonna di Senigallia; a Sansepolcro e a Monterchi con gli affreschi della Resurrezione e della Madonna del Parto e infine ad Arezzo con il ciclo della Leggenda della Vera Croce, sono indubbiamente fra le più suggestive dei Taccuini. Esse infatti lasciano trasparire l’amore stupefatto per l’armonia e la civiltà delle città e dei paesaggi, oltre che per l’opera del pittore che in quei posti ha vissuto e dipinto. Basti pensare a passi come i seguenti per sentirsi orgogliosi di questi luoghi, i nostri luoghi biografici, o quelli degli affetti. Al momento della partenza da Urbino annota quella che sarà la nota dominante delle pagine successive: "Queste piccole città ben chiuse, austere, silenziose, raccolte attorno alla propria perfezione. Nel cuore delle mura severe, i personaggi indifferenti della Flagellazione aspettano in eterno, davanti agli angeli e all’altera Madonna di Piero della Francesca".

Subito di seguito ci lascia una commovente visione dell’Alta Valle del Tevere che, considerata la data in cui viene scritta, il 1959, suona quasi come il suo testamento spirituale: "Al termine della mia vita vorrei tornare sulla strada che scende nella valle di San Sepolcro, percorrerla lentamente, camminare fra i fragili ulivi e i lunghi cipressi e trovare, in una casa dai muri spessi e le stanze fresche, una camera nuda dalla cui stretta finestra si possa guardare la sera che scende sulla vallata". E quindi il viaggio della memoria e del desiderio prosegue verso Arezzo con notazioni topografiche precise e allusioni paesaggistiche incomparabili: "Vorrei tornare nel giardino del Prato, ad Arezzo, e rifare, di sera, la passeggiata del cammino di ronda sulla fortezza per vedere insediarsi la notte su questa terra incomparabile".

Teniamole a mente, queste parole dedicate al paesaggio che si trova dietro la Fortezza, con la sua armoniosa successione collinare e la visione delle più austere montagne del Casentino. Su Piero della Francesca, Camus ha lasciato pagine rivelatrici nelle sue opere giovanili, pagine che dimostrano quanto l’arte e il linguaggio di questo pittore sprigionino un’ eccezionale energia ipnotica. Egli ricorda di aver scoperto Piero dalle pubblicazioni che, giovane studente "barbaro", prendeva in prestito dalla biblioteca di Algeri. Sin da allora, la narrazione figurativa di Piero gli era apparsa, per lui, nato in un paese come l’Algeria, senza storia e con incerta identità, la pietra angolare su cui basarsi per scrollarsi di dosso la nativa "barbarie" e ripercorre il cammino della civiltà occidentale.

La scoperta di Piero è avvenuta quindi attraverso le riproduzioni delle sue opere, ma nel contempo la conoscenza della sua arte gli è stata suggerita dalla lettura di due autori e ideali avventurieri nell’esplorazione della civiltà, che sono André Malraux (1901-1976) e André Suarès (1868-1948), entrambi ammiratori del pittore. Il primo, scrittore e prestigioso uomo politico, con il suo burrascoso passato in Cambogia dove s’appropria di alcune sculture delle rovine di Angkor, gli ha fatto intravedere la grandezza impassibile dell’arte orientale, un’arte che non vuole né comunicare, né esprimere sentimenti, ma cogliere l’universalità senza tempo di personaggi e di eventi. Il secondo, quell’André Suarès che, giovanissimo e senza soldi, nella sosta aretina soleva dormire sotto il portico di Santa Maria delle Grazie, gli ha svelato il legame profondo di Piero con l’arte classica, paragonando il Cristo della Resurrezione di Sansepolcro ad uno Zeus con la folgore nascosta fra le pieghe del sudario. È tramite i loro scritti che Camus comprende come in Piero confluiscono queste due grandi correnti carsiche che superano le barriere di spazio e di tempo e che, unite, rendono l’opera d’arte universale.