
Lottò contro il fango nell’alluvione del 1966. Quella lezione dell’Arno non è servita a nulla
Cardinali
Premetto che non amo essere chiamato angelo del fango: è un’espressione fin troppo retorica. Però il giorno della grande alluvione del 4 novembre 1966 ce l’ho stampato bene in mente. Avevo 19 anni ed ero un giovane studente di ingegneria. Spalare rappresentò una svolta nella mia vita: lì appresi le prime lezioni di protezione civile. Non mi sento un angelo: ho dato semplicemente una mano perché Firenze si rialzasse dalla distruzione dopo l’ondata di piena.
Abitavo a Montevarchi e il Valdarno, insieme al Casentino, fu la vallata più colpita dalla furia dell’Arno e dei suoi affluenti. Fu una pioggia eccezionale che andò avanti per 36 ore di fila e presto si scatenò il panico fatto di voci sui danni provocati dal maltempo. Si sparse la voce che le dighe di Levane e della Penna erano venute giù, il tam tam dilagò per Montevarchi accanto alla paura che, di lì a poco, le acque avrebbero sommerso tutto. Mio babbo prese l’auto dal garage e si mise in strada diretto verso la collina sopra la Ginestra, dove abitavamo: "Lì saremo al sicuro" disse. Ma il guaio fu che la stessa idea la ebbero in parecchi: tutti si infilarono in auto e tutti per la stessa strada. Ci fu un ingorgo pazzesco, perfino qualche tamponamento dovuto all’asfalto scivoloso. Ma per fortuna le dighe tennero: lo spettro del Vajont di appena tre anni prima non si materializzò, almeno in Valdarno.
A Montevarchi ci mettemmo a spalare il fango, io lo feci al museo paleontologico. Non era esondato l’Arno: a venir fuori dagli argini erano stati i torrenti, il Dogana e il Giglio, che nel fiume non trovavano più sfogo. Furono invasi i quartieri lungo via Piave: la cantina del mio futuro suocero finì sotto un metro d’acqua e anche in via Roma e al Pestello fu un disastro.
Ero matricola di ingegneria, 57 anni fa: non ci fu l’inaugurazione dell’anno accademico e le lezioni vennero sospese. Giuseppe Tartaro, figura carismatica della Fuci di Montevarchi, quando la situazione si era fatta più tranquilla, organizzò un gruppo di studenti della Federazione universitaria cattolica, per dare una mano a Firenze. Partimmo in diversi, spalammo fango nel carcere femminile di Santa Verdiana dove era reclusa Leonarda Cianciulli, la celebre saponificatrice di Correggio.
Ho fatto parte del comitato tecnico-scientifico dell’Autorità di bacino dell’Arno dal 1999 al 2004 e ho partecipato alla redazione del piano di stralcio sul rischio idraulico che prevedeva il contenimento fino a 100 milioni di metri cubi d’acqua a nord di Firenze, attraverso laminazioni e casse di espansione, oltre allo sfangamento delle dighe di Levane e della Penna.
Ma purtroppo, oggi potrebbe ripetersi la stessa situazione del 1966. Non si è fatto praticamente nulla da quel 4 novembre, forse appena il 5 per cento di ciò che sarebbe stato necessario.
Come le casse di espansione: neanche una è stata realizzata sull’Arno lungo il tratto aretino, in provincia ci sono solo su un paio di affluenti. Il Casentino presenta rischi di media ed elevata pericolosità a partire da Pratovecchio, ma la situazione più critica è da Ponte a Poppi verso Bibbiena. Il piano di Bacino 1999 prevedeva quattro casse di espansione: Pratovecchio, Campaldino, Poppi, Bibbiena. Nessuna di queste è stata realizzata. Altre casse di espansione furono previste a Corsalone, Rassina, Castelluccio e Ponte a Buriano per un volume totale fino a Ponte a Buriano di circa 27 milioni di metri cubi. Anche qui nulla di fatto.
In Valdarno il rischio è elevato sia per i centri abitati che per Ponte Buriano dove il ponte provvisorio non è stato integrato con le opere idrauliche, come proposi alla Regione quando ero ingegnere capo della Provincia. Non si è intervenuti nemmeno sulla piana di Laterina. Lo scarico di fondo alla diga de La Penna e sovralzo della diga di Levane sono indispensabili per impedire il rigurgito delle piene negli affluenti minori dell’Arno.
Infine c’è una zona particolarmente a rischio nel comune di Bucine: è la strada provinciale 540.
Prima dell’abitato di Pietraviva la strada è soggetta a frequenti allagamenti. Una soluzione di non breve periodo è costituita dalla costruzione dell’invaso sull’Ambra nei pressi del Castello di Montalto, ancora oggi inserita nelle previsioni dell’Autorità di Bacino e che dispone solo di uno studio di fattibilità.
Le minacce del dissesto idrogeologico sono aggravate dagli effetti dei cambiamenti climatici, compromettono la sicurezza di tutti. Per non ritrovarsi sempre a dover gestire un’emergenza si dovrebbe intervenire in modo preventivo attraverso un ampio programma di interventi strutturali e non strutturali.
Agli interventi strutturali per mettere in sicurezza da frane o ridurre il rischio di allagamento, si dovrebbero affiancare misure che puntino sul mantenimento del territorio, sulla riqualificazione e sul monitoraggio continuo. Oggi, l’unica cosa da fare è prestare massima attenzione alle allerte e avere la massima prudenza, considerando che la lezione dell’Arno a Firenze nel 1966 è rimasta inascoltata.