TIZIANA
Cronaca

Le battaglie aretine del Primo Maggio . I braccianti sfruttati e la crisi Sacfem

Nel Dopoguerra alcune grandi manifestazioni hanno interessato la città e i lavoratori: dalla riforma agraria ai problemi del Fabbricone

Le battaglie aretine del Primo Maggio . I braccianti sfruttati e la crisi Sacfem

Le battaglie aretine del Primo Maggio . I braccianti sfruttati e la crisi Sacfem

Nocentini

Il Primo Maggio per questo è anche occasione per riflettere, verificare e valutare problemi, bisogni, aspettative ma soprattutto è un momento in cui tutta la comunità è unita.

Questa giornata, nella storia del territorio aretino, in alcuni periodi storici, è stata legata a manifestazioni, a lotte in riferimento a problemi nazionali e locali. Indicative sono le azioni del primo maggio nel primo dopoguerra quando il movimento mezzadrile aveva sviluppato un alto livello di conflittualità conquistando il patto colonico regionale, limitando cosi l’arbitrio padronale nella disdetta dei contratti per i primi tre anni.

I mezzadri riuscirono a liberarsi di vecchie prestazioni servili, ma questi successi andarono a svanire con l’avvento del regime fascista che favorì la reazione degli agrari.

Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale le condizioni di vita di braccianti, mezzadri e reduci di guerra si aggravarono ulteriormente. I sindacati incentrarono la loro attenzione sulla condizione dei braccianti cercando di imporre l’imponibile di manodopera, contratto che obbligava il proprietario ad assumere un certo numero di persone in modo proporzionale all’estensione della sua proprietà e la riforma del collocamento, per regolare il modo in cui venivano reclutati i lavoratori dei campi.

Il Primo Maggio vide anche il supporto dei dipendenti della Sacfem che alla fine degli anni Sessanta del Novecento fu investita da una nuova crisi per il reparto Riparazioni ferroviarie a conseguenza della riduzione degli orari di lavoro e del ritardato il pagamento degli stipendi. Fondata nel 1906 da diciannove azionisti a Firenze, l’anno successivo si iniziò la costruzione di due stabilimenti: uno ad Arezzo e uno a Pistoia. Nel 1908 a causa di non specificati intoppi burocratici la società decise di abbandonare la costruzione dello stabilimento pistoiese per concentrarsi su quello aretino. Nel 1968 vennero create tre nuove società, una per l’ambito edile, una per il tessile e un’altra per l’agricolo, controllate da una holding (la Nuova Sacfem). Nel 1969 si iniziò a costruire il nuovo stabilimento di Arezzo: due anni dopo i lavori finirono e vi fu il trasferimento delle lavorazioni e il reparto ferroviaria fu chiuso. Il vecchio stabilimento, chiamato “il Fabbricone”, fu demolito e sostituito dal parco Giotto e da un quartiere residenziale.

Tornando alla fine degli anni Sessanta, la risposta dei lavoratori alla crisi di commesse sarà lo sciopero a oltranza che vedrà anche l’occupazione dello stabilimento. La grave crisi che si aprì nel 1967 e si protrasse per circa un anno si concluse con la decisione di abbandonare definitivamente il settore delle riparazioni ferroviarie, settore sempre meno sicuro a causa della concorrenza delle aziende nate nell’immediato secondo dopoguerra.

Prima del 1967 all’interno dello stabilimento non è mai stato registrato un periodo, più o meno lungo, di pace produttiva dal momento che ogni tre o quattro anni si registrava una crisi produttiva. La storia del Fabbricone è stata caratterizzata da una “lotta continua”, da parte dei lavoratori, per la difesa del posto di lavoro. È in questi momenti che la Direzione Aziendale cambia il modo di trattare con gli operai: vengono usati come mezzo per ottenere commesse da parte dello Stato o per attuare speculazioni edilizie da parte della Bastogi ad Arezzo.

Gli operai attribuiscono la crisi dello stabilimento alla mancanza di veri industriali: la carica di direttore generale fu ricoperta anche da un ex ammiraglio.

La Sacfem iniziò a produrre materiale tessile nel 1956, nel 1961 quello edile e nel 1968 macchine agricole. La mancata capacità di specializzarsi in un determinato settore di produzione non permise all’azienda di affermarsi nel mercato. Nel 1968 costituisce tre nuove società per settore di produzione: tessile, agricola ed edile. Il primo maggio è ricordato anche per i cappellifici del Valdarno. La società cooperativa che nasce all’inizio del Novecento si distinguerà per i prodotti di alto livello grazie anche alle tecniche portate dall’esperienza di maestranze cecoslovacche impiegate all’interno e specializzate nella lavorazione del feltro.

Dopo il boom economico degli anni Cinquanta la crisi investì l’industria del cappello e alla fine degli anni Sessanta alcuni stabilimenti furono sottoposti ad amministrazione controllata. Alcuni di questi, a seguito delle manifestazioni, riuscirono ad ottenere commesse dallo Stato e tirare un sospiro di sollievo per qualche anno. Non dobbiamo dimenticare le manifestazioni delle lavoratrici della Lebole che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta portarono a sperare ad un risanamento aziendale firmato nel 1978 che però avrà un futuro molto breve che porterà a lunghe trattative per la permanenza della partecipazione pubblica nel settore che non avrà successo a favore della privatizzazione causando una serie di scioperi in città che porterà all’acquisto da parte della Marzotto alla fine degli anni Ottanta.